Le Upanishad - scrive nell'introduzione Carlo Della Casa - sono trattati
indiani di varia estensione, epoca e forma, in prosa e in versi. Quelle antiche
e medie, dette vediche, risalgono probabilmente ad un periodo che va dal 700 al
300 a.C., e sono essenzialmente indagini, domande e risposte, sull'origine e il
destino umani e sui fondamenti ultimi dell'essere individuale e universale.
Una
delle più antiche è indicata come Brhadaranyaka, "Upanishad del grande
libro silvestre", ed è quella di cui sto riportando dei brani, mantenendo la traduzione del testo in italiano con qualche libertà,
nel senso che evito nomi difficili da leggere e pronunciare, o cerco di usare
nomi a me familiari, che fanno parte della mia cultura.
Il saggio viene messo
alla prova da un re, a cui egli concede la possibilità di fargli domande a
piacere.
Il re chiede: "Quale luce illumina l'uomo?"
Risponde quello: "La luce del sole, o gran re. Con il sole come
luce l'uomo giace, si muove, fa il suo lavoro, torna."
"E' proprio così. Ma quando il sole è tramontato, quale luce
illumina l'uomo?"
"La luna gli è luce, o gran re. Con la luna come luce l'uomo giace,
si muove, fa il suo lavoro, torna."
"E' proprio così. Ma quando il sole è tramontato, quando è
tramontata la luna, quale luce illumina l'uomo?"
"Il fuoco gli è luce, o gran re. Con il fuoco come luce l'uomo
giace, si muove, fa il suo lavoro, torna."
"E' proprio così. Ma quando il sole è tramontato, quando è
tramontata la luna, quando il fuoco s'è spento, quale luce illumina
l'uomo?"
"La parola gli è luce, o gran re. Con la parola come luce l'uomo
giace, si muove, fa il suo lavoro, torna. Perciò, quando per il buio non si
scorge neppure la propria mano, là dove si leva una voce, là ci si
dirige."
"E' proprio così. Ma quando il sole è tramontato, quando la luna è
tramontata, quando il fuoco s'è spento, quando la parola più non s'ode, quale
luce illumina l'uomo?"
Qui il desiderio di non usare termini a me lontani deve fare i conti con
la difficoltà di trovare un termine italiano soddisfacente. Il saggio infatti
risponde:
“L’Atman gli è luce, o gran re. Con l’Atman come luce l’uomo giace, si
muove, fa il suo lavoro, torna.”
Termini come Atman o Brahman sarebbero intraducibili, tuttavia ritengo
che per chi non è di quella cultura assumerli comporta necessariamente una perdita, una falsa vicinanza e una
vera lontananza, se non uno sciocco manierismo. L’Atman è l’essenza individuale,
il soffio vitale di ognuno, l’essere pensabile alla nascita, il Sé originario
senza dualismo tra inconscio e coscienza, l’istinto di vita senza dualità tra
eros e thanatos, la pura Volontà di vivere come direbbe Schopenhauer (da lui
pensata come parte della Volontà dell’universo, in ciò ripercorrendo l’identificazione
compiuta nelle Upanishad, che lui amava, tra Atman e Brahman). Scegliendo una
di queste possibili traduzioni:
“Il Sé gli è luce, o gran re. Con il Sé come luce l’uomo giace, si
muove, fa il suo lavoro, torna.”
“ E che cos’è il Sé?” chiede il re.
“E’ quel personaggio che tra le facoltà è quella costituita di
conoscenza, che è la luce interna del cuore, che sempre uguale a se stesso si
muove in questo mondo e nell’altro. Pare che pensi, pare che si muova velocemente
e, fatto sogno, oltrepassa questo mondo, le apparenze mortali.”
(Brhadaranyaka Upanishad, 4° cap. 3° par., Upanishad vediche, Tea 1988, pp.
68-69)
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