"La circolarità di vita e morte, che la coscienza tragica
coglie senza infingimenti, da un lato lascia innocente la natura nel suo
eccesso di vita e nella sua crudeltà, dall'altro confligge con la vita del
singolo individuo che vuol durare. In lui la naturalità della morte non
coincide con l'accettazione passiva della morte perché, se è vero che ogni
singola vita deve morire affinché la vita viva, è altrettanto vero che ciascuna
vita non vuole consegnarsi alla morte, non perché teme quel che può accadere dopo,
ma perché è vita e, in quanto vita, rifiuta la morte.
Qui il tragico appare in tutta la sua drammaticità, che non
consiste nella contrapposizione tra la vita e la morte come nella concezione
cristiana ma consiste nella contrapposizione fra la vita e la vita: la vita
della natura che, per vivere, esige la morte delle singole esistenze, e la
singola esistenza che, per vivere, deve allontanare la morte.
Il tragico coglie il conflitto non contrapponendo la natura
a un'altra entità, quale potrebbe essere l'uomo o Dio, ma, all'interno della
stessa natura, tra la sua economia generale, dove la morte è condizione di
vita, e l'economia delle sue singole esistenze, dove la morte è la limitazione
e la fine della vita.
L'uomo sa di dover morire perché appartiene al ciclo della
natura che è vicenda alterna di vita e di morte, ma al tempo stesso resiste
alla morte, perché così vuole la vita che è in lui.
Resistere non è rassegnarsi e consegnarsi passivamente al
ciclo della natura, ma non è neppure atto temerario che pretende di valicare il
limite della natura. Resistere è contemperare la consapevolezza della morte con
l'acquisizione delle conoscenze che consentono di procrastinarla o di evitarla
quando è evitabile."
(U. Galimberti, La casa di psiche, Feltrinelli 2006, pp 23-24)
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Qui Galimberti sta esponendo le caratteristiche della visione greca del mondo, la sua dimensione coraggiosamente tragica che rifugge da invenzioni fantastiche di evitamento della inevitabilità della morte e dalla probabilità di dolori di varia natura nel corso della vita.
Per me evocativa di pensieri collaterali l'osservazione della contrapposizione fra vita e vita, che nel senso che gli dà Galimberti mi arriva soltanto come comprensione intellettuale: è chiaro che se non fossero morti tutti gli uomini che sono morti nei millenni passati non ci sarebbe forse stato lo spazio per quelli che vivono ora.
Ma, più intensamente, m'è ricomparsa la condizione della vita che mangia vita per poter continuare a vivere - quella condizione inevitabile che ho associato alla nozione mitica di "peccato originale"- per cui tutti i viventi animali si nutrono di altri viventi vegetali e animali, e anche se la specie umana diventasse unanimemente vegana tutti gli altri animali continuerebbero a nutrirsi di altra vita vegetale e animale così come il sistema difensivo immunitario degli umani continuerebbe nella sua lotta per la vita a uccidere i micoscopici invasori per mantenere la propria vita nel mantenere quella del corpo in cui vive.
E, ancora più intensamente, m'è comparsa la condizione di terribile solitudine in cui rischiamo di dover vivere la consapevolezza della nostra fragilità alle malattie e della impossibilità di evitare il decadimento fisico e infine l'inimmaginabile morte se non abbiamo qualcuno che sappia condividere con noi la stessa consapevolezza. Cioè la condizione del vivente che si contrappone al vivente, con invisibile muro di indifferenza, di rigida leggerezza di fuga, di scherno impaurito, invece di condividere lo stesso cammino, lo stesso destino. Questa, mi pare, è la vera tragedia umana, ciò che è evitabile e non è evitato, ciò che non è affatto necessario e viene eseguito come fosse impossibile fare diversamente: la tragedia è la stupidità e la violenza quando potremmo farci compagnia e, anche, condividere la condizione biologica inevitabilmente soggetta a decadimento, malattie e morte - riderne, anche.
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