Alla fine delle sue considerazioni sul suicidio e su come
viene considerato nelle diverse culture, Schopenhauer aggiunge:
“Il suicidio può essere considerato anche come un
esperimento, come una domanda posta alla natura per costringerla a rispondere,
vale a dire: quale modificazione subirà l'esistenza e la conoscenza dell'uomo
mediante la morte? Ma è un domandare maldestro: infatti abolisce l'identità
della coscienza, che dovrebbe ricevere la risposta.”
(Schopenhauer, Parerga)
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Di suicidi ce ne sono di diversi tipi: Schopenhauer qui si
riferisce essenzialmente al suicidio della persona gravemente e acutamente
sofferente per motivi psichici, che decide di porre fine alla sua esistenza
diventata un inferno invivibile.
In approssimazione: il suicida annulla la persona viva che
è, tutta, corpo e psiche per quel che sappiamo - non solo la coscienza. Mi
sorprende che Schopenhauer scriva “abolisce l’identità della coscienza” – se così ha
scritto nella sua lingua, fidandosi del traduttore. Capirei subito se avesse
scritto “abolisce la coscienza”, ma
forse voleva dire: proprio la sua particolare coscienza, con la sua personale identità.
La "domanda" che il suicida fa è alla natura, come scrive
Schopenhauer?
Forse è più vicino alla
realtà pensare che la “domanda” del suicida è a un tutto, che comprende anche
la natura, ma che in prima direzione è rivolta al mondo che lo ha accolto e con
il quale è entrato in relazione, il mondo animato altamente significativo della
propria specie, cioè il mondo umano, e del mondo umano la “domanda” è rivolta alle
persone che avrebbero dovuto prendersi
cura di lui, farlo sentire protetto e amato quando era inerme, e tra queste persone
possiamo pensare che la domanda sia rivolta principalmente alla madre, anche se
è passato tanto tempo dai suoi primi giorni mesi anni di vita.
Madre natura? Estendendo, penso di sì, la natura come ambiente-madre. Stringendo
il campo visivo, invece, la “domanda” è probabilmente rivolta alla natura della
madre, di quella madre particolare, in carne ed ossa. Accade sempre che se
questo primo rapporto altamente significativo è stato deludente il vissuto di
delusione tenda a generalizzarsi, estendendosi anche alle altre
esperienze successive che raramente riescono a contrastare o annullare gli
esiti di quel primo rapporto psichicamente decisivo. Il primo amore non si scorda mai, si sa; quello che non si aggiunge ma che
forse si pensa è che non si scorda mai anche se è stata una tremenda delusione.
L’identità della coscienza. Non la coscienza.
Liberamente pensando: se il suicida
riuscisse a rivolgere l’atto di morte non a tutto sé, corpo e anima, ma solo
all’identità, e quindi non alla coscienza come funzione psichica – se il suicida
riuscisse a rivolgere la propria aggressività all’identità della sua coscienza,
alla memoria passata della sua coscienza, cioè alla sua particolare identità,
alla sua storia, a ciò che è diventato, a tutto ciò che lo ha portato fino a
quel punto, e non alla sua coscienza come possibilità di coscienza – se il
suicida riuscisse a rivolgere il suo atto di morte soltanto contro il deposito
della sua memoria ma non alla memoria come funzione - se ciò fosse possibile, sarebbe
la fine dell’angoscia terribile da cui sta cercando liberazione, e lui
continuerebbe a vivere, riprenderebbe a vivere percepire ricordare come se
fosse appena nato.
La “domanda” del suicida, secondo Schopenhauer, è: quale
modificazione subirà la mia esistenza e la mia conoscenza mediante la morte?
Così come abbiamo pensato e immaginato, dal momento in cui ho annullato con
atto di aggressività mortale selettiva la mia identità, il mio passato, la mia
memoria, ma non la coscienza come funzione, non la memoria come funzione, non
ricordo più nulla della domanda, e non so di essere la risposta.