venerdì 17 maggio 2013

Il coraggio di Schopenhauer


"La musica non esprime il fenomeno, bensì l'intimo essere, l'in-sé, la volontà stessa."

Caro Schopenhauer,
la prima volta che mi hai sorpreso ti ho capito subito, o almeno ti ho seguito subito in quello che dicevi - uno dice: ho capito, ma non significa che abbia capito, bisogna vedere cosa ha capito, a che livello ha capito, può solo aver capito a livello linguistico: cosa che capita spesso, per cui uno a volte dovrebbe dire: ho capito quello che dici, ma non ho capito quello che dici - ti ho seguito subito quando scrivevi che, sì, è vero che noi  possiamo conoscere il mondo solo come immagine, come percezione, come rappresentazione, come avviene per qualsiasi "occhio" che guardi il mondo fosse anche quello di un insetto, e che lo possiamo percepire solo inserendolo in uno spazio e in un tempo e in catene di causa-effetto - questo è vero, scrivevi, ma non è vero invece che siamo completamente all'oscuro della realtà in sé al di là della rappresentazione che se ne fanno gli infiniti occhi che hanno guardato, guardano e guarderanno il mondo - non è vero invece, hai capito e scritto, che il nostro sguardo, la nostra percezione è sempre esterna così come è sempre dall'esterno che vedo chi mi sta vicino vivere, ridere, piangere, gridare, tacere, provare piacere o provare dolore: della realtà intimissima, dell'essere in sé qualcosa posso sapere, e posso saperlo a partire da me stesso, me stesso corpo, il "mio" corpo - nel rapporto tra quel di me che dice "mio" e il corpo stesso che sono, né nel corpo che sono né in quel che dice "mio" ma nella relazione che trovo tra i due, posso avere esperienza di un essere, un esistere, che è il mio in-me, la cosa in sé di me stesso.
Grande, sei stato, dunque, in questo, quella prima volta in cui ho capito quello che dicevi: la soluzione del problema era più che sotto gli occhi, era negli occhi stessi, che guardano e sempre guardano anche se chiudo le palpebre, guardano e sempre guardano e non posso impedire con la mia volontà che guardino, perché questo è il loro essere, la loro funzione, la loro "Volontà", come la hai chiamata anche se hai usato la minuscola - la Volontà di cui tutto il mio corpo è portatore nell'esistere, che è cosa diversa dalla mia volontà mentale, particolare, quella che segue motivazioni legate alle circostanze e alla mia storia personale.
Grazie, dunque, perché nella tua soluzione, verificabile da ognuno che capisce quello che dici, c'è il superamento dell'alienazione fondamentale umana, quella tra ognuno e il mondo, l'interno e l'esterno, il soggetto e l'oggetto. Superamento filosofico, di pensiero mentale, verbale, comunicato attraverso una lingua che qualcuno ha tradotto nella mia, ma superamento prezioso, che indica, a chi la avesse persa e avesse nel pensiero comunicabile una possibilità di ritorno, una via psichica precisa, pratica.
E' vero, dunque, che il mondo là fuori mi è conoscibile solo in quanto mi appare, in quanto fenomeno, rappresentazione della mia sensibilità corporea, è vero che è altro da me, ma è vero anche che nel me corporeo io vivo qualcosa che scalda il mondo esterno del mio stesso calore. La pasta madre di cui sono fatto, di cui posso avere esperienza indicibile ma esperienza, è la stessa pasta madre degli altri esseri umani intorno a me - e non solo, tu scrivi, non solo degli altri esseri umani, ma è la stessa pasta madre di tutti gli esseri, del mondo intero, della materia tutta dell'universo, seppure in gradi diversi portatori di "idee" diverse.
Ora, ecco che mi sorprendi con queste affermazioni sulla musica. Le trovo molto coraggiose.
La musica esprime la indicibile Volontà universale, la "cosa in sé" del mondo e quindi anche di me stesso? La musica esprime ciò che io intimamente sono al di là del mio essere storico, condizionato, particolare, fenomenico?

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


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