venerdì 31 maggio 2013

La quale immagine è la nostra vita

 "In una persona sana solamente le azioni pesano sulla coscienza, e non i desideri o i pensieri: soltanto le azioni, infatti, ci tengono innanzi lo specchio della nostra volontà. L'azione non meditata, commessa in un cieco impeto, è in certo modo un che di mezzo tra semplice desiderio e decisione: quindi essa, mediante vero pentimento che si mostri anche nell'azione, può essere cancellata come una linea mal tracciata nell'immagine della nostra volontà, la quale immagine è la nostra vita."
 

Insomma, secondo Schopenhauer quando le nostre azioni impulsive sono espressione del nostro carattere, o peggio ancora quando non sono vere azioni impulsive ma sotto questa apparenza nascondono azioni "meditate in segreto", c'è poco da pentirsi: il ripensamento dura quello che dura, e nella stessa situazione o in una situazione analoga prima o poi il comportamento impulsivo tornerà a far danni. Se è un borderline violento che picchia la sua donna, c'è poco da contare sui suoi pentimenti: quella violenza è diventata sua volontà, sua pulsione, e c'è da fidarsi ben poco delle sue parole o del potere delle parole su di lui.

Ma quando l'azione impulsiva è il momento di relativa follia che prende una persona sana in un momento di stanchezza, di saturazione in una situazione altamente stressante, allora vi può essere poi non solo una rivalutazione cognitiva del proprio comportamento, ma una vera e propria repulsione, un dolore sincero ed acuto per ciò che si è fatto - in questi casi, l'azione impulsiva dannosa è solo "una linea mal tracciata nell'immagine della nostra volontà", cancellabile con i fatti, con altro comportamento, altro agire. In questi casi l'azione impulsiva non è espressione della volontà profonda della persona: la sua vera volontà è un'altra di fatto, non di parola. Se invece l'azione impulsiva è espressione della volontà della persona, vi può essere solo rivalutazione cognitiva dell'accaduto, ma la volontà non cambia e tornerà a manifestarsi.

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


Sono più numerose


"A ragione Epitteto dice: Non sono le cose stesse a tormentare gli uomini, ma le idee che si fanno su di esse"; e Seneca: Sono più numerose le cose che ci impauriscono di quelle che ci circondano."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

giovedì 30 maggio 2013

Il dolore psichico


"Nella maggior parte dei casi, all'infuori delle azioni del tutto insignificanti, noi veniamo determinati da motivi astratti, pensati, e non già impressioni momentanee. Quindi è per noi abbastanza lieve da sopportare sul momento ogni singola privazione, ma è invece terribilmente grave ogni rinuncia definitiva: perché quella tocca soltanto l'attimo che fugge, questa invece tocca l'avvenire, e chiude in sé innumerevoli privazioni delle quali è l'equivalente. La causa del nostro dolore, come della nostra gioia, per lo più non sta dunque nel reale presente, ma solo negli astratti pensieri: sono questi che spesso ci gravano insopportabilmente, e creano pene di fronte alle quali assai piccole sono le sofferenze dell'animalità, poiché il nostro stesso dolore fisico non viene spesso neppure sentito vicino a quelle; ed anzi, soffrendo di violenti dolori psichici noi ci produciamo dolori fisici solo per distogliere con ciò dai primi l'attenzione: questo è il motivo per cui nel massimo dolore psichico ci strappiamo i capelli, ci battiamo il petto, ci laceriamo il volto, ci rotoliamo per terra, tutte cose che propriamente non sono altro che violente distrazioni da un pensiero che sentiamo insopportabile. 
E proprio perché il dolore psichico, essendo di gran lunga il maggiore, rende insensibili al dolore fisico, il suicidio diventa facilissimo al disperato, o a chi è consumato da morboso travaglio, anche se costui per l'innanzi, in condizioni tranquille, davanti al pensiero del suicidio s'arretrava sbigottito. Similmente l'ansia e la passione, ossia il travaglio dei pensieri, consumano il corpo più spesso e più a fondo delle sofferenze fisiche."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


Non avrà rimorsi




mercoledì 29 maggio 2013

Psicoanalisi del rimorso: l'impulsività


Il rimorso, scrive Schopenhauer, non deriva mai da un cambiamento della volontà che ha portato a compiere l'atto del quale il soggetto si pente, deriva invece da un cambiamento della conoscenza: quello stesso atto il soggetto ora lo considera diversamente rispetto a prima, quando lo ha agito.
Se consideriamo due livelli di volontà personale, uno più superficiale, legato alle circostanze presenti, per cui, seppure per un attimo, vogliamo fare quella cosa, diamo il via all'azione, e l'altro più profondo, di una volontà personale che è connessa al carattere, alla intenzionalità di base della persona, allora si capisce quello che Schopenhauer scrive: questa volontà più profonda, più intimamente legata all'assetto caratteriale, la ritiene immutabile, come secondo la sua opinione è immutabile il carattere, anche se considera possibile che nel corso della vita si verifichino trasformazioni anche radicali dei comportamenti, della condotta - ma il carattere resta quello.

La sua è un'analisi precisa dell'impulsività egodistonica, quella che porta a dispiacersi poi di ciò che si è fatto quando ci si trovava in un momento a forte connotazione emotiva in cui la lettura della realtà era distorta. Ma a Schopenhauer non sfugge che può non trattarsi di comportamenti eccezionali, bensì del manifestarsi di una volontà profonda, caratteriale, della persona; non solo: non gli sfugge nemmeno che l'impulsività momentanea, che siamo pronti a prendere in considerazione come attenuante della gravità del comportamento agito, può nascondere altro.

"Il rimorso non proviene mai dall'essersi mutata la volontà (cosa impossibile), bensì la conoscenza"

"Sempre il rimorso è rettificata conoscenza del rapporto tra l'azione e il vero e proprio intento."

"Non posso pentirmi mai di ciò che ho voluto, ma posso pentirmi di ciò che ho fatto, perché, guidato da una visione errata delle cose, ho fatto qualcosa non conforme alla mia volontà, e l'accorgermene, in forza di una più esatta conoscenza, costituisce il rimorso. Posso ad esempio aver agito con più egoismo di quanto sia conforme al mio carattere, fuorviato da rappresentazioni distorte della situazione in cui mi trovavo, o anche dall'astuzia, dalla falsità e dalla malvagità altrui, o anche dalla mia precipitazione, ovvero dalla mancanza di riflessione, determinato da motivi non già chiaramente conosciuti ma solo vagamente intuiti sotto l'influenza del presente e del coinvolgimento emotivo che ne risultava così forte che non possedevo più l'uso della mia ragione. In questo caso, il ritorno della ponderatezza non è altro che rettificata conoscenza, da cui può sorgere rimorso, che poi si manifesta nel rimediare al mal fatto, fin dove sia possibile. Va tuttavia osservato che per illudere noi stessi ci predisponiamo apparenti stati di avventatezza che propriamente sono azioni meditate in segreto."


(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


Psicoanalisi del rimorso


"Il tormento della coscienza per un atto commesso è tutt'altro che rimorso: è dolore per l'aver conosciuto noi stessi nel nostro vero essere, ossia nella nostra volontà, e si fonda sulla certezza d'aver tuttora la medesima volontà."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

 

Imperocché

"Imperocché è bensì vero che ogni individuo è effimero solo in quanto individuo, mentre come cosa in sé è fuori del tempo e perciò non ha fine: ma pur soltanto come fenomeno è distinto dalle altre cose del mondo, mentre come cosa in sé esso è la Volontà che in tutto si palesa, e la morte cancella l'illusione che separa la sua coscienza dall'universale: questa è la vera eternità. Da ciò procede che l'intima coscienza impedisce che il pensiero della morte avveleni la vita al consapevole essere razionale, essendo tale coscienza la base di quell'ardore vitale che sorregge ciascun vivente e lo fa procedere animoso nell'esistenza."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, traduzione Paolo Savj-Lopez)


martedì 28 maggio 2013

Quando la mente mente

Secondo Schopenhauer, alla base della credenza che la vita individuale continui dopo la morte c'è lo svuotamento di potere conoscitivo di ciò che è per tutti evidente: che tutti gli esseri viventi, sia del mondo animale che del mondo vegetale, piccolissimi o grandissimi che siano, effimeri come farfalline di un solo giorno di vita o longevi come elefanti o baobab centenari, nascono vivono e muoiono, e dopo che sono morti non li vediamo più andare in giro per il mondo, non quelli che sono morti, non quei soggetti, quegli individui: per quelli che sono morti la natura dice che la cosa finisce lì. 
Dovrei pensare che se così è per tutti gli esseri viventi del mondo, sarà così anche per me: deduzione assai problematica, questa, per cui, col dito sul grilletto della negazione di un fatto evidente, ho la possibilità di cavarmela con una invenzione, che non devo fare la fatica di trovare io: fin da bambino la trovo già pronta, collaudata, condivisa, culturale, e la trovo ovunque io sia nato - ogni cultura, ogni religione me la offre, me la suggerisce o in qualche modo me la impone - è un'invenzione così diffusa che si può pensare avvenga su negazione di specie, quella umana, negazione dell'evidenza, alla quale siamo predisposti quando le cose si mettono male e sorge per noi qualche difficoltà insuperabile o che pensiamo sia insuperabile. Predisposti alla conoscenza delle cose, quando ciò che conosciamo ci pone gravi difficoltà siamo anche predisposti a strategie alternative di negazione e sostituzione della prima conoscenza con una illusione, una falsa conoscenza.

Per dire: se sono un bambino piccolo e noto che mia madre non mi vuole per niente bene, anzi le do impiccio, non posso accettare l'evidenza, se no sto davvero nei guai: di madre si sa, ce ne è una sola, per cui sai che ti dico? mia madre è una santa, se ce l'ha con me ha ragione, io sono cattivo assai - e se mi è morto il gattino...
A seconda di dove sono nato, questa invenzione a parare le conseguenze del gattino morto, questo racconto più o meno sacro, me lo offre la religione del luogo, che in modi diversi mi dice: non temere, caro, non piangere, la tua vita non finisce con la morte come è stato per il tuo gattino, no, la tua vita prosegue, va oltre, tu continuerai a vivere in un qualche paradiso b-e-l-l-i-s-s-i-m-o, ma, ma, sai, te lo devi meritare: prima, devi fare quello che ti dico io di fare - oh! non ti imbronciare, suvvia, lo so che lo sai, che è ben poca cosa la tua obbedienza in questa breve vita rispetto all'eternità dopo la morte - lo so che lo sai, che è ben poca cosa il sacrificio dell'intelligenza della verità sensibile rispetto alla pace del dogma di fede sovrannaturale - cosa? non hai capito? significa che la morte del tuo gattino non è vera, non farci caso: la natura mente!

Mediante questa credenza, che la vita individuale continui dopo la morte, l'evidenza che tutti gli esseri viventi muoiono viene svuotata del suo potere di fatto: la natura mente, dunque, ci fa vedere un'apparenza, per cui ciò che vediamo non è la verità, quell'essere vivente da me amato continua a vivere anche se non lo vedo, e così sarà anche per me, e quando sarà io vedrò ciò che ora non posso vedere: l'al di là oltre la morte.

Non solo oltre la morte. Da questa negazione tipica della nostra specie derivano esistenze di mondi paralleli a iosa. La morte esiste ma, dopo, la vita continua, e questa vita che continua può scorrere parallela a quella, unica mentre sono vivo qui, che posso vedere sentire toccare. La morte esiste ma non esiste, non è vera, quello che vedo non è la verità: la natura, il mondo dell'esperienza sensibile, mente.

C'è un'altro tipo di negazione che svela più chiaramente di essere il punto d'appoggio per un delirio.
Questa: tutti gli esseri viventi nascono vivono e muoiono, ma io no - io sono eterno, non sono come gli altri. Questo delirio non vive solo nelle case di cura: anzi, nascostamente vive soprattutto fuori e spesso viene scherzosamente manifestato - non è uno scherzo.

Chi crede che la sua vita non finisca con la sua morte individuale, dunque, scrive Schopenhauer, non si fida di quello che la natura del mondo mostra chiaramente, apertamente, "ingenuamente". L'origine vera dei dogmi e delle credenze sulla vita dopo la morte sta nella consapevolezza inconscia di ogni essere umano "di essere lui stesso la natura, il mondo".
Questa consapevolezza inconscia, che la vita di cui sono espressione continua dopo la mia morte, non è certamente consapevolezza di continuazione della mia vita individuale, che finisce definitivamente con la mia morte così come la natura mi mostra chiaramente per tutti gli esseri viventi.

"Benché il singolo fenomeno della Volontà abbia inizio nel tempo e finisca nel tempo, la Volontà stessa non ne è toccata. Alla Volontà di vivere è sempre certa la vita: questo non va confuso con le dottrine sulla sopravvivenza individuale."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


lunedì 27 maggio 2013



La natura è ingenua, la cultura invece è assai furba


"I dogmi cambiano e il nostro sapere è ingannevole, ma la natura non sbaglia: il suo corso è sicuro ed essa non lo occulta. Ogni cosa è interamente in essa ed essa è interamente in ogni cosa. Essa ha il suo centro in ogni animale che ha trovato con certezza la propria via nell'esistenza, come la troverà con certezza per uscirne: nel frattempo vive tranquillo, senza timore della morte, sorretto dalla consapevolezza di essere la natura stessa e come essa intramontabile. 
Soltanto l'uomo si porta dietro la certezza della propria morte; tale certezza, tuttavia, lo può impaurire, cosa assai strana, solo in singoli momenti, quando un'occasione la fa presente alla sua immaginazione. 
Poco può la riflessione contro la potente voce della natura: anche nell'uomo, come nell'animale che non pensa per concetti astratti, predomina quella sicurezza derivante dall'intima consapevolezza di essere lui stesso la natura, il mondo, perciò il pensiero della morte certa e mai lontana non inquieta sensibilmente alcun uomo ma ognuno campa come dovesse vivere eternamente, e questo fino al punto da poter dire che nessuno ha una convinzione veramente viva della certezza della propria morte, ma che ognuno riconosce quella certezza in astratto e teoricamente e tuttavia la mette da parte al pari di altre verità teoriche senza mai accoglierle nella propria viva coscienza. 
Chi ben consideri questa caratteristica peculiare della mentalità umana vedrà che le specie psicologiche di spiegazione con l'abitudine e l'adattamento all'inevitabile non sono affatto sufficienti: l'origine di questa peculiarità si trova più in fondo. 
Allo stesso modo possiamo capire perché in tutti i tempi e presso tutti i popoli si trovano dogmi vari sul perdurare dell'individuo dopo la morte, dogmi che godono di grande considerazione, ma le prove a favore sono sempre state insufficienti mentre quelle per il contrario forti e numerose, ed anzi quest'ultimo non ha propriamente bisogno di nessuna prova ma è riconosciuto come dato di fatto da un intelletto sano, rafforzato dalla fiducia nel vedere che la natura mente altrettanto poco di quanto sbaglia, anzi mostra apertamente la propria azione e la propria essenza e le manifesta apertamente, quasi ingenuamente, mentre noi le oscuriamo con l'errore."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)



domenica 26 maggio 2013


Quando la morte esiste



Negli strati più profondi della nostra psiche, dunque, secondo Matte Blanco, uno psicoanalista che riformulò a modo suo le cose che aveva detto Freud a proposito dei processi inconsci, il mondo è per noi diverso da quello con cui ci mettiamo in contatto nella nostra vita "normale", da svegli. In quegli strati di noi, dove le distinzioni precise che ci permettono di vivere praticamente vanno perdendosi in insiemi sempre più estesi fino a diventare infiniti per cui tutto è uno e uno è tutto, non esistono inizio e fine, non esistono nascita e morte.

Dire: la morte non esiste, suona strano, certo.
Come? Che fai? Ti tappi gli occhi? Neghi l'evidenza?

Anche ammettendo che solo ad un certo punto della vita noi bambini siamo diventati consapevoli della morte, per cui esiste in noi un qualche ricordo attivo di un prima in cui la morte non esiste, poi però la conoscenza, confermata da fatti a volte drammatici, è indelebile, e cambia tutto.

Dire che la morte non esiste, vivere come se la morte non esistesse, è illusorio, è negazione - al più possiamo accettare questa illusione come una consolazione, una necessaria quota di indifferenza, un modo per continuare a vivere nonostante.

Dire, in modo più circoscritto, che per certi strati psichici di noi la morte non esiste, è ipotizzare qualcosa di probabile, per cui, se così è, possiamo contare su una parte antica di noi a supporto della nostra decisione di negare quanto basta la morte per continuare a vivere. Cioè, da adulto mi dico: qui meglio evitare quanto basta, se no ci rimetto le penne, non ce la faccio a sopportare la morte - la morte non esiste, allora dico sapendo di mentire, e mi faccio aiutare da parti antiche di me bambino che non avevano ancora conosciuto la morte, ad esse chiedo rifugio momentaneo.

Per quanto va scrivendo Schopenhauer, ci sarebbe di meglio.
Se a livelli inconsci di noi, potenti proprio in quanto inconsci, vive quella forza vitale che Schopenahuer chiama volontà di vivere, allora la negazione della morte diventa inutile. Non c'è più bisogno di negare la morte, allora, perché la nostra volontà di vivere inconscia è in noi un'onda alta e potentissima - non evita la morte, è talmente forte che in battaglie di cui non siamo consapevoli la vince in rapidi tempi di visione e di lutto, la disarma di ogni suo potere di paralisi e terrore, e la sorpassa verso la vita.



sabato 25 maggio 2013

Quando la morte non esiste


Il modo di rapportarci al mondo che adottiamo nella vita quotidiana durante la veglia è caratterizzato dal presupposto
- che la realtà è formata di elementi separati, riconoscibili uno dall'altro;
- che noi stessi e la realtà siamo in movimento nello spazio e nel tempo;
- che possiamo misurare sia il tempo che lo spazio (secondo successioni che vanno da un lì-prima a un qui-mentre a un lì-dopo);
- che tra noi e il mondo c'è precisa distinzione;
- che, con velocità diverse, tutto passa;
- che per gli esseri viventi c'è una nascita, una vita e infine una morte.

Questo, più o meno di base, pensiamo di noi stessi e del mondo in cui viviamo; così lo conosciamo e ci conosciamo. E funziona.

Ma non è l'unico modo che abbiamo di rapportarci con il mondo: nei sogni, per esempio, mettiamo in atto altre modalità di essere e di conoscere. Usiamo un'altra logica, scrive Matte Blanco, in cui egli riconosce il regno della simmetria.
Il sogno non è alogico, privo di logica: è logico, ma di una logica diversa da quella con cui ci muoviamo nella nostra vita da svegli - una logica in cui regna la simmetria, la quale è però presente in gradi diversi anche nella nostra vita da svegli.
Infatti, secondo Matte Blanco avviene una interazione continua tra le due logiche, quella asimmetrica tipica della veglia e quella simmetrica tipica del sogno: la nostra vita psichica tutta, sia della veglia che del sonno, è una "cooperazione" tra i due modi di essere sentire vedere pensare la realtà: l'essere umano è "bilogico".

Le caratteristiche del nostro modo "altro" di rapportarci con la realtà, tipico del sogno ma non esclusivo del sognare, sono secondo Matte Blanco queste:
 - sentire conoscere ed essere sono la stessa cosa;
- non c'è distinzione tra sé e non sé;
- sono assenti le nozioni di spazio fisico o simbolico, tempo fisico o simbolico (movimento e avvenimento sono sconosciuti);
- non esiste morte.

(I. Matte Blanco, L'inconscio come insiemi infiniti, Einaudi 2000, pp 385-394)

Modo di sogno e modo di veglia


Matte Blanco, psicoanalista cileno trasferitosi a Roma nel 1966, dove è morto nel 1995 - lo ho incontrato almeno in un paio di occasioni che ricordo bene - ha sviluppato una sua concezione del funzionamento psichico, attento in modo particolare al tipo di logica che usiamo nel rapportarci al mondo, nel vederlo, nel pensarlo, sia quando siamo svegli che nei nostri sogni.

Leggendo Schopenhauer ogni tanto ho ricordato quello che Matte Blanco diceva e scriveva. 
"Tutte le manifestazioni psichiche umane sono il risultato dell'interazione tra due modi di essere, e questo è vero per il pensiero, per il sentimento e per la vita sociale."  "La realtà dell'uomo è formata da due aspetti: una realtà omogenea, senza tempo, senza spazio, senza parti, e una realtà concepita come formata o divisa in parti" "I due modi di vedere il mondo (come divisibile e come indivisibile) sembrano essere alla radice stessa della nostra natura. Dalle due branche di questa dicotomia si originano tutte le strutture fondamentali: la logica (il pensiero) il sentimento, l'essere, l'unità del mondo o la divisione del mondo sono tutte espressioni o conseguenze di questa dicotomia."


Nel corso della nostra vita, soprattutto quando sogniamo ma anche in certi momenti da svegli, noi ci mettiamo in contatto con la realtà come se fosse una totalità omogenea e indivisibile, un tutt'uno in cui non distinguiamo le parti, le cose, le persone, in cui gli avvenimenti non sono quello che sono: per dire, se do un bacio ad una donna, su una guancia così si capisce meglio che sono io a baciare in quel momento, sono io che le bacio la guancia, non è anche lei, la sua guancia, che in quello stesso avvenimento bacia me - se amo una persona, non è che nello stesso atto, nello stesso avvenimento che avviene in me, quella persona ama me - se accompagno in macchina mio figlio non è che mio figlio sta accompagnando me - se sono il padre di mio figlio, non è che lui è mio padre - ebbene, invece, nel modo di funzionare senza distinzioni, omogeneo e indivisibile, accade proprio questo: i due avvenimenti, nei due versi, formano una sola realtà, nella quale regna la simmetria - provate a pensare in modo simmetrico: tutto diventerà come un sogno, come potrebbe essere un sogno una guancia che bacia la nostra bocca.


(Ignacio Matte Blanco, L'inconscio come insiemi infiniti, Einaudi 2000,  pp 385-394)





venerdì 24 maggio 2013

La ciliegia infinita

"La vita è certa per la volontà di vivere: la forma della vita è il presente senza fine."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)



giovedì 23 maggio 2013

Come il sole


"Come il sole reale arde ininterrottamente, mentre esso affonda solo in apparenza nel seno della notte, così quando un uomo teme la morte come il proprio annientamento la cosa non sarebbe diversa dal pensare che il sole alla sera potrebbe lamentarsi così: Povero me! io svanisco nella notte eterna." 

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


Katana


Esiste sempre


"Soltanto il presente è ciò che esiste sempre ed è definitivo."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


mercoledì 22 maggio 2013

Volontà di ferro e donna Flor


I teschi e il lingam


"La realtà intima, essenziale, in sé del mondo è la Volontà; il mondo e la vita sono ciò che vediamo, soltanto immagine speculare della Volontà, e la accompagnano inseparabilmente, come l'ombra accompagna il corpo. Per la volontà di vivere la vita è cosa certa e finché siamo pieni di volontà di vivere non dobbiamo essere in ansia per la nostra vita, neppure in vista della morte. 
Noi vediamo bensì l'individuo nascere e perire, ma l'individuo esiste come fenomeno distinto solo per la conoscenza che lo separa dal resto: per questa, certamente, egli accoglie la propria vita come un dono, esce dal nulla, patisce poi con la morte la perdita di quel dono e torna nel nulla. Ma se noi consideriamo la vita nel suo insieme, troveremo che né la Volontà né il soggetto della conoscenza, lo spettatore dei fenomeni, sono toccati da nascita e morte. 
La nascita e la morte, infatti, appartengono al fenomeno, quindi alla vita, e alla vita è essenziale il manifestarsi negli individui che nascono e muoiono come effimere apparenze che si manifestano nel tempo di ciò che in sé non ha tempo. Nascita e morte appartengono in egual modo alla vita e si mantengono in equilibrio tra loro, come poli del fenomeno della vita nel suo insieme. 
La più saggia di tutte le mitologie, quella indiana, esprime tutto ciò raffigurando il dio che simboleggia la distruzione e la morte, Shiva, sia con un collare di teschi che con il lingam, simbolo della procreazione, che qui appare a bilanciare la morte indicando che procreazione e morte sono correlati essenziali in equilibrio tra di loro. 
Fu esattamente lo stesso modo di vedere le cose che spinse Greci e Romani ad ornare i preziosi sarcofaghi con feste, danze, matrimoni, cacce, baccanali, con rappresentazioni della più potente vitalità, volendo indicare la vita immortale della natura, muovendo dalla morte del compianto individuo e indicando che l'intera natura è la manifestazione e il compimento della volontà di vivere. L'individuo nasce e muore, ma questo tocca ben poco la Volontà di vivere: l'intera natura non si preoccupa per la morte di un individuo, poiché non importa l'individuo ma la specie, alla cui conservazione essa tende con tutto l'impegno provvedendo con abbondanza di gameti e la grande potenza dell'istinto fecondativo. Ora, poiché l'uomo è la natura stessa, può consolarsi della propria morte e di quella delle persone amiche volgendosi a guardare la vita immortale della natura, che è lui stesso. Shiva con il lingam, i sarcofaghi antichi con le immagini della vita più ardente dicono con voce forte al dolorante osservatore: La natura non si rattrista."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


martedì 21 maggio 2013

E' per sempre la vita



"La Volontà, considerata in se stessa, è inconscia: è un impulso cieco e inarrestabile, come noi lo vediamo apparire già nella natura inorganica e vegetale, così anche nella parte vegetativa della nostra stessa vita. Con il sopravvenire della rappresentazione, sviluppatasi al suo servizio, essa acquista conoscenza del suo volere e di ciò che essa vuole, che altro non è se non il mondo, la vita, così come si presenta. Il mondo come ci appare è il suo specchio, quindi ciò che vuole la Volontà è pur sempre la vita; perciò è tutt'uno quando invece di dire 'Volontà' diciamo 'Volontà di vivere'."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

Purplessità


Devi volere


"L'ultima parte della nostra considerazione si annuncia come la più seria, poiché concerne le azioni degli uomini: oggetto che riguarda direttamente ciascuno e non può essere estraneo o indifferente a nessuno" in quanto, scrive Schopenhauer, la natura degli uomini è quella di riportare ogni discorso, ogni analisi, ai suoi effetti pratici, alle azioni che ne conseguono o ne dovrebbero conseguire, anche se non si è prestata attenzione a tutto quello che è stato detto prima, o non lo si è capito.
"Secondo il modo usuale di esprimersi la parte che segue della nostra considerazione si chiamerebbe filosofia pratica. Secondo il mio parere, tuttavia, ogni filosofia è sempre teoretica, essendo per essa essenziale rimanere sempre nell'osservazione, nella ricerca di come stanno le cose, senza comandare. Dirigere l'azione, trasformare il carattere, sono vecchie pretese che dovrebbero essere abbandonate. Trattandosi del valore o del disvalore di un'esistenza, della salvezza o della dannazione, non sono decisivi i discorsi morti bensì l'intima essenza dell'uomo stesso, il demone che lo guida e che non lo ha scelto, ma che lui stesso ha scelto, come dice Platone - il suo carattere intellegibile, come dice Kant. 
La virtù non si insegna così come non si insegna la genialità: per la virtù i concetti sono sterili, sono utilizzabili soltanto come strumenti così come avviene per l'arte. Saremmo sciocchi nell'attenderci che i nostri discorsi morali suscitino uomini virtuosi, nobili e santi, così come saremmo sciocchi nell'attenderci che i nostri discorsi sulla bellezza suscitino poeti, scrittori e musicisti."
Non posso volere che l'altro voglia, scrive Schopenhauer; posso comandare che faccia una cosa, ma non posso comandare che voglia intimamente farla: "Deve volere! - è come dire: un ferro di legno." 

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


domenica 19 maggio 2013

Nel quale siamo e che è in noi


"Questo mondo reale della conoscibilità, nel quale siamo e che è in noi, resta la materia ed il limite della nostra considerazione: esso è talmente ricco di contenuto che anche il più profondo studio di cui fosse capace la mente umana non potrebbe esaurirlo."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione) 


L'amore non basta


Oupnek'hat


Sono arrivato al libro quarto, parte finale dell'opera di Schopenhauer. Quest'ultima parte ha come titolo "Il mondo come volontà", e come sottotitolo "Affermazione e negazione della volontà di vivere dopo aver raggiunto la conoscenza di sé". Affermazione e negazione della volontà di vivere. Affermazione e negazione della volontà di vivere... Potrebbe bastare. Uno potrebbe scrivere un libro intitolato: AFFERMAZIONE E NEGAZIONE DELLA VOLONTA' DI VIVERE, e fermarsi lì. Ci vuole una vita, per leggere un libro così. Invece, accade spesso che più sono le pagine e meno tempo ci si mette a leggere, dimenticando quello che si legge nello stesso momento in cui si legge. O un momento dopo, al più. Che, del resto, è quello che facciamo spesso. Dimenticare di vedere quello che stiamo guardando già nell'atto stesso di vederlo, pur continuando a guardare.

Abraham Anquetil-Duperron, orientalista francese, nel 1801 pubblicò Oupnek'hat, una traduzione dal persiano al latino di Upanishad, prima traduzione in una lingua europea. Schopenhauer si incontrò con questo libro nella primavera del 1814 e più volte disse che era diventato non solo il suo libro preferito, ma che Oupnek'hat è l'opera più degna di essere letta di tutta la letteratura mondiale. Proprio da una citazione di questa traduzione Schopenhauer fa precedere la parte finale del suo "Mondo":

"Tempore quo cognitio simul advenit, amor e medio supersurrexit. 
Oupnek'hat, studio Anquetil Duperron, vol. II, p. 216"

Gian Carlo Giani traduce così: Nel tempo stesso in cui subentrò la conoscenza, l'amore s'involò dal mondo.

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


sabato 18 maggio 2013

Camera oscura


"Se il mondo intero quale rappresentazione non è che la visibilità della Volontà, l'arte fa più limpida questa visibilità,  è la camera oscura che mostra nettamente gli oggetti e li fa vedere meglio abbracciandoli con lo sguardo, è lo spettacolo nello spettacolo, la scena sulla scena, come nell'Amleto."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


Step


venerdì 17 maggio 2013

A colui che si abbandona


"A colui che si abbandona interamente all'impressione di una sinfonia accade come se vedesse tutti i possibili avvenimenti della vita e del mondo passargli accanto, e tuttavia, se vi riflette, egli non può indicare nessuna somiglianza tra la musica che ha sentito e le cose che immaginava. La musica infatti non è immagine del fenomeno ma immagine immediata della Volontà stessa e rappresenta perciò la cosa in sé di ogni fenomeno. La musica esprime in una lingua universale l'intima essenza del mondo, e la esprime con semplici suoni e con la massima determinatezza e verità."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

Il coraggio di Schopenhauer


"La musica non esprime il fenomeno, bensì l'intimo essere, l'in-sé, la volontà stessa."

Caro Schopenhauer,
la prima volta che mi hai sorpreso ti ho capito subito, o almeno ti ho seguito subito in quello che dicevi - uno dice: ho capito, ma non significa che abbia capito, bisogna vedere cosa ha capito, a che livello ha capito, può solo aver capito a livello linguistico: cosa che capita spesso, per cui uno a volte dovrebbe dire: ho capito quello che dici, ma non ho capito quello che dici - ti ho seguito subito quando scrivevi che, sì, è vero che noi  possiamo conoscere il mondo solo come immagine, come percezione, come rappresentazione, come avviene per qualsiasi "occhio" che guardi il mondo fosse anche quello di un insetto, e che lo possiamo percepire solo inserendolo in uno spazio e in un tempo e in catene di causa-effetto - questo è vero, scrivevi, ma non è vero invece che siamo completamente all'oscuro della realtà in sé al di là della rappresentazione che se ne fanno gli infiniti occhi che hanno guardato, guardano e guarderanno il mondo - non è vero invece, hai capito e scritto, che il nostro sguardo, la nostra percezione è sempre esterna così come è sempre dall'esterno che vedo chi mi sta vicino vivere, ridere, piangere, gridare, tacere, provare piacere o provare dolore: della realtà intimissima, dell'essere in sé qualcosa posso sapere, e posso saperlo a partire da me stesso, me stesso corpo, il "mio" corpo - nel rapporto tra quel di me che dice "mio" e il corpo stesso che sono, né nel corpo che sono né in quel che dice "mio" ma nella relazione che trovo tra i due, posso avere esperienza di un essere, un esistere, che è il mio in-me, la cosa in sé di me stesso.
Grande, sei stato, dunque, in questo, quella prima volta in cui ho capito quello che dicevi: la soluzione del problema era più che sotto gli occhi, era negli occhi stessi, che guardano e sempre guardano anche se chiudo le palpebre, guardano e sempre guardano e non posso impedire con la mia volontà che guardino, perché questo è il loro essere, la loro funzione, la loro "Volontà", come la hai chiamata anche se hai usato la minuscola - la Volontà di cui tutto il mio corpo è portatore nell'esistere, che è cosa diversa dalla mia volontà mentale, particolare, quella che segue motivazioni legate alle circostanze e alla mia storia personale.
Grazie, dunque, perché nella tua soluzione, verificabile da ognuno che capisce quello che dici, c'è il superamento dell'alienazione fondamentale umana, quella tra ognuno e il mondo, l'interno e l'esterno, il soggetto e l'oggetto. Superamento filosofico, di pensiero mentale, verbale, comunicato attraverso una lingua che qualcuno ha tradotto nella mia, ma superamento prezioso, che indica, a chi la avesse persa e avesse nel pensiero comunicabile una possibilità di ritorno, una via psichica precisa, pratica.
E' vero, dunque, che il mondo là fuori mi è conoscibile solo in quanto mi appare, in quanto fenomeno, rappresentazione della mia sensibilità corporea, è vero che è altro da me, ma è vero anche che nel me corporeo io vivo qualcosa che scalda il mondo esterno del mio stesso calore. La pasta madre di cui sono fatto, di cui posso avere esperienza indicibile ma esperienza, è la stessa pasta madre degli altri esseri umani intorno a me - e non solo, tu scrivi, non solo degli altri esseri umani, ma è la stessa pasta madre di tutti gli esseri, del mondo intero, della materia tutta dell'universo, seppure in gradi diversi portatori di "idee" diverse.
Ora, ecco che mi sorprendi con queste affermazioni sulla musica. Le trovo molto coraggiose.
La musica esprime la indicibile Volontà universale, la "cosa in sé" del mondo e quindi anche di me stesso? La musica esprime ciò che io intimamente sono al di là del mio essere storico, condizionato, particolare, fenomenico?

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


giovedì 16 maggio 2013


Una lingua che la ragione non comprende


"Ora, come l'essenza dell'uomo consiste nel fatto che la sua volontà desidera, viene soddisfatta e torna a desiderare, e così continuamente - anzi, la sua felicità e il suo benessere sono soltanto in questo: che il passaggio dal desiderio al suo appagamento e poi ad un nuovo desiderio avvenga rapidamente, poiché il mancato appagamento è dolore e l'assenza di un nuovo desiderio è languor, noia. Così, corrispondentemente, l'essenza della musica è un continuo allontanarsi e deviare dal tono fondamentale in mille vie, non solo verso i gradi armonici, verso la terza e la dominante, ma verso ogni tono, verso la settima dissonante e i gradi successivi, ma infine è sempre ritorno al tono dominante: in tutte queste vie la melodia esprime la multiforme aspirazione della volontà e sempre anche l'appagamento finale per il ritrovamento di un grado armonico e ancor più del tono fondamentale. Trovare la melodia, la rivelazione in essa di tutti i segreti più profondi del volere e del sentire umano, è opera del genio, la cui azione è qui più facile da vedere che altrove, lontano da ogni riflessione e consapevole intenzione. Qui, come ovunque nell'arte, il concetto è sterile: il compositore rivela l'intima essenza del mondo ed esprime la più profonda saggezza in una lingua che la sua ragione non comprende."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


Chissà cosa c'è scritto


mercoledì 15 maggio 2013


Speriamo che


Dalle tragedie degli adulti "normali", quelle tragedie che derivano da incontri tra adulti che finiscono col "farsi il più gran male sapendo e vedendo", conseguono le tragedie dei figli che da quegli incontri nascono. Quegli adulti che forse potevano cavarsela se avessero fatto altri incontri, diventano a volte genitori che fanno cose da orrore per presenza violenta o per complementare violenza d'assenza. E, col tempo, gli altri adulti, intorno, che vengono a sapere e vedono, quando non schivano di rapida viltà con un'indifferenza che si inanella agli orrori che incatenano il bambino al suo tragico destino, capiscono l'orribile delitto che si sta compiendo dietro muri di negazione che ordina l'impotenza, cercano di fare qualcosa, sperando, sperando a mascelle serrate - fanno quello che possono, quello che è loro consentito fare - sperando che serva, che aiuti almeno un poco quel bambino a lenire la sua sofferenza - che allenti la ferrea stretta del suo ingiusto destino.
Ma, ecco, volevo aggiungere alle considerazioni di Schopenhauer questa, della tragedia di tanti bambini - mi pare che i bambini compaiano ben poco nella sua opera. Forse allora l'infanzia, la sua fondamentale importanza, la sua bellezza, le emozioni, le paure, il pensiero, e anche le sue tragedie, non era conosciute quanto lo sono oggi. Quanto lo sono, oggi?


Akirna


Le tre tragedie di Schopenhauer


Schopenhauer fa una rapida rassegna delle belle arti, dall'architettura alla tragedia, tralasciando per il momento la musica, per la quale ha in mente considerazioni particolari. A proposito della tragedia "voglio permettermi un'osservazione", scrive. E' questa.
"La rappresentazione di una grande sciagura è essenziale alla tragedia, ma le molte strade per cui essa viene introdotta dal poeta si possono ricondurre a tra concezioni specifiche. 
Può infatti accadere per la eccezionale malvagità, sfiorante i limiti estremi del possibile di un carattere, che diventa la causa della sciagura... 
Può inoltre accadere per il cieco destino, cioè per caso e per errore... 
La sciagura, però, può infine essere provocata dal semplice atteggiamento reciproco delle persone, cioè dalle relazioni, per cui non occorre né un errore straordinario né un caso fortuito inaudito, e neppure un carattere che nel male raggiunga i confini dell'umanità: la sventura può essere provocata da caratteri moralmente comuni in circostanze normali, ricorrenti, quando questi caratteri comuni vengono a trovarsi uno di fronte all'altro in modo tale che la situazione li costringe a farsi l'un l'altro il più gran male sapendo e vedendo, senza che in ciò il torto sia esclusivamente dall'una o dall'altra parte. Mi sembra che quest'ultima specie di tragedia sia più interessante delle altre due, poiché essa ci fa vedere la più grande delle sventure non come un'eccezione rara, non come qualcosa di causato da circostanze improbabili o da caratteri mostruosi, ma come qualcosa che deriva con facilità dai caratteri e dalle azioni degli esseri umani, e appunto per ciò la avvicina tremendamente a noi. 
E se noi scorgiamo nelle altre due specie di tragedia il destino mostruoso o l'orrenda malvagità come potenze terribili, ma che ci minacciano solo da molto lontano e alle quali possiamo sfuggire senza cercare scampo nella rinuncia, l'ultima specie ci mostra invece che alle potenze che distruggono la felicità e la vita resta aperta in ogni momento la strada anche verso di noi, e il più grande dolore può essere causato da intrecci la cui essenza può pesare anche sul nostro destino, e da azioni che forse anche noi saremmo capaci di compiere."

Delle tragedie per carattere malvagio porta come esempi Riccardo III, Iago nell'Otello, Skylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare, Fedra di Euripide, Creonte nell'Antigone di Sofocle.

Delle tragedie per cieco destino: Edipo di Sofocle, e "la maggior parte delle tragedie degli antichi", tra i moderni Romeo e Giulietta di Shakespeare, Tancredi di Voltaire, La sposa di Messina di Schiller.

Delle tragedie per atteggiamento reciproco tra persone normali, senza intervento di caratteri mostruosi né eventi eccezionali del caso, cita il Clavigo di Goethe, l'Amleto se si considera il rapporto di Amleto con Laerte e con Ofelia, il Wallenstein di Schiller, il Faust di Goethe "del tutto di questa specie se si considera il rapporto con Margherita e suo fratello". 
Potremmo esserci anche noi tra gli esempi di un futuro Schopenhauer per tragedie di questo tipo? No, sicuramente no.

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


Resta il giorno nella notte