sabato 30 maggio 2015

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Chi tu sei, questo


"Io sono stagione, discendente delle stagioni, ho avuto come matrice l'etere, sono sperma per la moglie, sono lo splendore dell'anno, sono l'intima natura di ogni creatura. Tu pure sei l'intima natura di ogni creatura; chi tu sei, questo io sono."

(Kausitaki Upanishad, cap. 1, Upanishad vediche, Tea 1988, pag. 260)

venerdì 29 maggio 2015

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Anna


"Dal cibo nascono le creature che si trovano sulla terra. Esse vivono di cibo e in esso ritornano al momento della morte. Le creature nascono dal cibo, crescono in grazie al cibo. Il cibo è mangiato e mangia: per questo è chiamato cibo (anna)"

"Io sono il cibo e mangio il mangiatore di cibo."

Annotazione personale. Non so cosa significhi "anna" nell'antica lingua lontana delle Upanishad, ma quando ho letto mi è venuto da sorridere. Mio figlio quando era piccolo e cominciava a pronunciare le sue prime parole ogni tanto se ne usciva con questa: “anna”. Io la pensavo con la maiuscola, “Anna”, cioè nome di donna, nonostante noi non conoscessimo nessuna Anna e non era suono, nome, che lui avesse sentito e ripeteva. Chissà cosa vuole, ci chiedevamo quando pronunciava quella parola senza che altri indizi ci permettessero di capire, e scherzando avevo risolto così: sarà il nome della donna della sua vita. 
Così, leggendo che “anna” nell’antica lontana lingua delle Upanishad significa cibo, ho ricordato e mi è venuto da sorridere. Ma sono propenso a pensare che sia solo una divertente coincidenza: piuttosto, oggi penso che lui avesse già respirato il dialetto romanesco, e “anna” poteva essere una forma abbreviata di “annamo”, cioè “andiamo” - il nobilissimo “andiamo”, l’invito, l’accettazione, la presa visione, del flusso continuo della vita, dello scorrere, del tutto passa - andare, andare, ancora andare: anna. Anche questa, comunque, ipotesi assai poetica.

Qui, invece, leggo che “anna” è parola, in quella antica lontana lingua, che comprende la simmetria per cui il cibo è mangiato e mangia. Questo è un dato di realtà osservabile, in alcuni casi: è per esempio la condizione del gatto tra topo e cane. Ma non è questo, il senso di quel “è mangiato e mangia”. Non riguarda solo alcuni casi, ma piuttosto esprime l’idea complessiva, l’intuizione portante che emerge in questa Upanishad, che la vita nutre se stessa, il Sé nutre il Sé, e il cibo è il "rimedio universale" che permette la vita. 
Idea che verrà ripresa da Schopenhauer: il leone non sa che quando affonda i suoi denti nella carne della gazzella li affonda nella sua stessa carne.

La simmetria di quel “è mangiato e mangia” è una delle caratteristiche essenziali dei processi inconsci, secondo Matte Blanco: mentre la logica dei processi mentali della veglia è asimmetrica, per cui il leone mangia la gazzella e l’azione è a senso unico, la logica dei processi inconsci, per esempio quelli del sogno ma non solo, tende alla simmetria quanto più ci si allontana dalla veglia e la sua capacità di distinguere le cose, i rapporti causa-effetto, le azioni transitive nella relazione soggetto-oggetto. Se io mangio una mela, l’azione è a senso unico, ma andando verso i processi inconsci si va verso la mela che mi mangia, oltre ad essere mangiata – la “bilogica” umana, secondo Matte Blanco. 

La mela che mi mangia può suonare assai strano, ma se si pensa ad altre azioni la cosa diventa meno bizzarra. Per esempio: io amo una persona, e nella veglia sono consapevole che sono io ad amare quella persona, il che non significa certamente che quella persona necessariamente ami me. Ma questa logica asimmetrica assai razionale, realistica, capace di distinguere le persone una dall’altra e il senso delle azioni, tende a sfumare nei sogni e non solo: a livelli meno coscienti di me si fa sentire la possibilità che il mio amare sia magicamente essere amato, e quella precisa persona tende a diventare un insieme di persone, per cui tanto più ci si “con-fonde”, tanto più l’insieme si allarga, fino a diventare tutte le persone – fino a diventare un insieme infinito, indistinto: appunto, come diceva Matte Blanco, l’inconscio come insiemi infiniti. Là il cibo è mangiato e mangia, come per le Upanishad, come per la “Volontà” di Schopenhauer.

(Taittiriya Upanishad, Upanishad vediche, Tea 1988, pp. 227-246)

mercoledì 27 maggio 2015

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Il calore del sole

"Quando uno, addormentato, in sé raccolto, in piena calma, non scorge sogno, allora nessun male lo tocca, infatti egli è in possesso del calore del sole."

"La calma serena che sorge dal corpo, e raggiunta una suprema luminosità si realizza nel suo vero aspetto, essa è il Sé, è l'immortalità, la sicurezza, l'Essere dell'universo."

"Quel Sé profondo che è libero da colpa, libero da vecchiaia, da morte, da dolore, non soggetto a fame, a sete, i cui desideri sono reali, le cui immaginazioni sono reali, esso bisogna ricercare, esso bisogna desiderare di conoscere."


(Chandogya Upanishad, cap. 8 par. 3-7, Upanishad vediche, Tea 1988, pp. 214-216)

martedì 26 maggio 2015

Stai passando ogni giorno sopra un tesoro nascosto?

"Ciò che è dentro il cuore dell'uomo non invecchia per la vecchiezza del corpo, né è colpito dal colpo che lo abbatte. Esso è il Sé profondo di ognuno, libero da colpe, libero da vecchiezza, da morte, da dolore, non soggetto a fame, a sete: i suoi desideri sono reali."

Desideri reali? 
Nel senso che anche se molto spesso non diventano realtà sono realmente desideri?
No: desideri reali, dice il sapiente nell'ottavo capitolo di questa Upanishad, nel senso che sono la realtà desiderata: nel "piccolo fiore di ninfea", nello spazio che si trova nel "cuore" di ognuno, nella "cittadella dell'Essere" in cui sono compresi "... cielo e terra, fuoco e vento, sole e luna, il lampo e le stelle e ciò che ognuno possiede e ciò che non possiede", là i desideri sono realtà, la realtà desiderata.

In questo "là" che è in ciascuno di noi qualsiasi cosa tu desideri, al solo concepirla diventa realtà. Sia le persone amate che sono vive, sia quelle che sono morte, "... sia ogni altra cosa che, pur desiderandola, non si ottiene, tutto troviamo andando là, nell'interno del cuore: là infatti si trovano tutti i desideri reali ma ricoperti dal falso."

E "il falso" sarebbe quello che per noi comunemente è reale - la realtà vera, percepibile, per cui ciò che ho io lo ho, ciò che non ho io non lo ho e lo vorrei avere, e i vivi sono vivi, li incontro, li vedo, li tocco, ci parlo, e i morti sono morti e non li posso più incontrare, vedere, toccare. Questo sarebbe falso?

Come la mettiamo? Cosa sta dicendo il sapiente della Upanishad? Cosa sono questi "desideri reali" i quali sarebbero "ricoperti dal falso", il quale falso è invece per me il vero verissimo della differenza chiara tra desiderio e realtà, per cui una cosa sono i desideri e altra cosa sono le cose reali, una cosa sono i vivi e altra cosa sono i morti, una cosa è il mio desiderio di vivere e vivere in forza e salute e giovinezza e altra cosa è la mia vita reale?

Caro, mi dice il sapiente dell'Upanishad, tu sei "... come coloro che non conoscono il luogo dove è nascosto un tesoro d'oro, e pur passandovi sopra ripetutamente non lo trovano: così, pur andando ogni giorno nel sonno profondo, non scoprono il mondo dell'Essere che in loro si trova, ostacolati come sono dal falso."

(Chandogya Upanishad, cap. 8 par. 1-3, Upanishad vediche, Tea 1988, pp. 211-213)

lunedì 25 maggio 2015

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Cosa ci vedi?


"Prendi un frutto di questo albero, figlio."
"Eccolo, padre."
"Spaccalo."
"Eccolo spaccato."
"Cosa ci vedi?"
"Questi piccolissimi grani."
"Bene, spaccane uno."
"Eccolo spaccato."
"Cosa ci vedi?"
"Nulla."
"Da questa essenza sottile che tu non percepisci, figlio, da questa essenza sottile nasce invero questo grande albero. Stanne sicuro: qualunque sia questa essenza sottile, essa è la vera realtà, essa è il Sé. Essa sei tu."


(Chandogya Upanishad, cap. 6 par. 12, Upanishad vediche, Tea 1988, p. 194)

domenica 24 maggio 2015

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Dorme


"Disse al figlio: Apprendi, o caro, la verità sul sonno. Quando si dice che un uomo dorme, allora, o caro, egli è unito con l'Essere. Egli è penetrato nel Sé."

(Chandogya Upanishad, cap. 6 par. 8, Upanishad vediche, Tea 1988, p. 190)

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sabato 23 maggio 2015

Poi le acque parlano con voce umana


"In verità, la donna è un fuoco: il grembo è il combustibile, l'invito è il fumo, il pudore è la fiamma, l'accoppiamento i carboni, il piacere le scintille.

Poi le acque parlano con voce umana. 

L'embrione avviluppato dalla membrana, dopo esser rimasto dentro dieci mesi o nove o quel che sia, viene poi alla luce.

Quando è nato, vive finché dura la vita.

Quando è morto, quando ha raggiunto il tempo destinato, lo afferrano per consegnarlo al fuoco da cui è venuto, da cui è sorto."

(Chandogya Upanishad, cap. 5 par. 8-9, Upanishad vediche, Tea 1988, p. 175-6)

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"In verità, l'uomo è un fuoco: la parola è il combustibile, il respiro è il fumo, la lingua è la fiamma, l'occhio è il carbone, l'orecchio è la scintilla."

(Chandogya Upanishad, cap. 5 par. 7, Upanishad vediche, Tea 1988, p. 175)

Quale verità?


 "In verità, questa terra è un fuoco: il tempo è il combustibile, lo spazio è il fumo, la notte è la fiamma, i punti cardinali sono i carboni, i punti intermedi sono le scintille."

(Chandogya Upanishad, cap. 5 par. 6, Upanishad vediche, Tea 1988, p. 175)

venerdì 22 maggio 2015

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Questa mia anima dentro il cuore

La Chandogya Upanishad - la seconda di questo testo - ha una prima parte di difficile lettura, almeno per me: il nome, Chandogya, significa circa "Upanishad del cantore di melodie", e la prima parte è appunto una sequenza di "melodie" che per me tanto melodiche come contenuto non sono. Nel leggere mi chiedevo: ma Schopenhauer cosa pensava, leggendo parti come queste? Ecco perché leggeva le Upanishad prima di addormentarsi!
Poi, al quattordicesimo paragrafo del terzo capitolo, ecco che lo vedo, Schopenhauer, assai sveglio e interessato.

"L'uomo, in verità, consiste di volontà. E l'uomo, come è la volontà che possiede in questo mondo, così diventa dopo la morte. Bisogna badare alla volontà.
Costituita d'intelletto, con il soffio vitale per corpo, la luce per aspetto, la verità per oggetto del pensiero, lo spazio etereo per essenza,
fonte di ogni attività, d'ogni desiderio, d'ogni odore, d'ogni sapore, comprendente tutto l'universo, muta, indifferente,
questa mia anima dentro il cuore è più piccola d'un grano di riso o d'orzo o di sesamo o di miglio o del nucleo d'un grano di miglio,
questa mia anima dentro il cuore è più grande della terra, più grande dello spazio atmosferico, più grande del cielo, più grande dei mondi.
Fonte d'ogni attività, d'ogni desiderio, d'ogni odore, d'ogni sapore, comprendente tutto l'universo, muta, indifferente, questa è la mia anima dentro il cuore, questo è l'Essere.
Non c'è più dubbio per colui che pensa: - Uscito da questo mondo, lo raggiungerò."


(Chandogya Upanishad, 3° cap. 14° par., Upanishad vediche, Tea 1988, p. 151)

mercoledì 20 maggio 2015

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Parola, parola, parola!

L'ultima parte di questa Upanishad comprende la descrizione di riti con diverse finalità, quasi sempre di tipo pratico - alcune sono assai curiose, per esempio come ottenere che una donna resti incinta oppure no, o come avere un figlio con carnagione chiara o scura, come avere una figlia colta, come liberarsi di un rivale in amore e così via. Curiosità a parte, pur nella diversità dei contenuti si respira l'aria, il ritmo, di una ritualità molto simile a quella della chiesa cattolica, probabile manifestazione di una diretta discendenza più che di una convergenza di culture lontane.

L'ottica è maschilista: lo sperma è identificato con la procreazione  (solo in un passaggio si parla di un "mescolamento" di liquidi per la procreazione, come se la donna avesse anche lei una sorta di liquido seminale); la donna è oggetto di conquista: ci sono varie indicazioni su come conquistarla, per esempio: "Se ella non gli concede favori, la convinca, se vuole, con dei doni; se ella continua a non concedere i suoi favori, la batta con un bastone o con la mano e la trascuri dicendo: - Con l'energia e lo splendore ti tolgo lo splendore - e così quella è privata del suo splendore. Se ella cede, allora dica: - Con l'energia e lo splendore ti arreco splendore - così entrambi rimangono splendenti."

E poi, guarda un po', come è nata la donna?

"Prajapati pensò di dover dare all'uomo un sostegno, e allora creò la donna. Creatala, la onorò di sotto, perciò bisogna venerare la donna di sotto. "

Quando nasce un bambino, è il padre che lo prende in braccio, beve una miscela di burro fuso e latte acido recitando formule d'augurio, poi  "... avvicinandosi all'orecchio destro di lui dice per tre volte: - Parola, parola, parola!", fa mangiare al bambino latte acido, miele e burro fuso usando un cucchiaio d'oro che non deve essere introdotto nella bocca, dice altre formule, gli impone il nome, e infine lo consegna alla madre perché si attacchi al seno.

(Brhadaranyaka Upanishad, 6° cap. 5° par., Upanishad vediche, Tea 1988, p. 109-112)

martedì 19 maggio 2015

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E ricorda di sciacquarti la bocca

"I soffi vitali, che erano in lizza per il primato, chiesero:
- Chi è il migliore tra noi?
- Quello per la cui mancanza si pensa che il corpo stia peggio: quello è il migliore tra voi.

La parola se ne andò. Stette via un anno, ritornò e chiese: - Come avete potuto vivere senza di me?
Gli altri risposero: - Siamo vissuti come i muti, che non dicono parola, respirano con il respiro, vedono con la vista, odono con l'udito, conoscono con la mente, generano con lo sperma.
La parola allora riprese il suo posto.

Se ne andò la vista. Stette via un anno, ritornò e chiese: - Come avete potuto vivere senza di me?
Gli altri risposero: - Siamo vissuti come i ciechi, che non vedono con la vista, respirano con il respiro, si esprimono con la parola, odono con l'udito, conoscono con la mente, generano con lo sperma.
La vista allora riprese il suo posto.

Se ne andò quindi l'udito. Stette via un anno, ritornò e chiese: - Come avete potuto vivere senza di me?
Gli altri risposero: - Siamo vissuti come i sordi, che non odono con l'udito, respirano con il respiro, si esprimono con la parola, vedono con la vista,  conoscono con la mente, generano con lo sperma.
L'udito allora riprese il suo posto.

Se ne andò allora la mente. Stette via un anno, ritornò e chiese: - Come avete potuto vivere senza di me?
Gli altri risposero: - Siamo vissuti come gli sciocchi, i quali non pensano con la mente, respirano con il respiro, si esprimono con la parola, vedono con la vista, odono con l'udito, conoscono con la mente, generano con lo sperma.
Allora la mente riprese il suo posto.

Se ne andò lo sperma. Stette via un anno, ritornò e chiese: - Come avete potuto vivere senza di me?
Gli altri risposero: - Siamo vissuti come gli eunuchi, i quali non generano con lo sperma, respirano con il respiro, si esprimono con la parola, vedono con la vista, odono con l'udito, conoscono con la mente.
Lo sperma allora riprese il suo posto.

Ma quando il respiro cominciò ad allontanarsi, trascinò con sé tutti gli altri sensi, come un grande nobile destriero trascinerebbe con sé i pali delle pastoie. Allora gli altri sensi dissero:
- Signore, non andartene, non possiamo vivere senza di te.
- Se ciò è vero, allora voglio un riconoscimento.


La parola disse: - Per quanto io sia la più ricca, tu sei il più ricco.
La vista disse: - Per quanto io sia il fondamento, tu sei il fondamento.
L'udito disse: - Per quanto io sia la prosperità, tu sei la prosperità.
La mente disse: - Per quanto io sia il rifugio, tu sei il rifugio.
Lo sperma disse: - Per quanto io sia la procreazione, tu sei la procreazione.


- Se io sono tale, quale è il mio nutrimento? Quale è la mia veste?
-  Qualunque cosa, tutto ciò che è mangiabile, tutto è tuo nutrimento, e tua veste sono le acque.


I sapienti, che conoscono la veste del respiro, si sciacquano la bocca prima di mangiare e dopo aver mangiato. Così essi pensano di non lasciare nudo il respiro."


(Brhadaranyaka Upanishad, 6° cap. 1° par., Upanishad vediche, Tea 1988, p. 96-98)

Da da da

Il secondo paragrafo del quinto capitolo di questa Upanishad ha l'aria di una breve favoletta, ma... Certo, se non parli o conosci quella lingua, perdi lo scorrere di parola del racconto, ma così è forse sempre, anche non così evidente. Qui, infatti, il Gran Capo, Prajapati, risponde ai suoi figli - gli dèi, gli uomini e i demoni - sempre la stessa cosa: Da.
Quelli, i figli, alla fine del loro apprendistato con il padre, gli chiedono: parlaci.
E il Gran Capo: Da.
Gli dèi capiscono damyata, parola che significa: dominatevi.
Gli uomini capiscono datta, parola che significa: donate.
I demoni capiscono dayadhvam, parola che significa: abbiate compassione.
E il Gran Capo alla domanda dei tre: abbiamo capito bene? riponde sempre: sì, avete capito bene. Infatti, è proprio questo ciò che dice il tuono quando fa sentire la sua voce: da da da - dominatevi, donate, abbiate compassione.

(Brhadaranyaka Upanishad, 5° cap. 2° par., Upanishad vediche, Tea 1988, p. 85-86)

lunedì 18 maggio 2015

Come prendere il suono di un tamburo

"Come non è possibile afferrare i suoni che escono da un tamburo battuto, ma presi il tamburo e chi lo batte pure il suono resta preso;
come non è possibile afferrare i suoni di una conchiglia nella quale si soffi, ma presi la conchiglia e chi vi soffia dentro pure il suono resta preso;
come non è possibile afferrare il suono di un liuto che venga suonato, ma presi il liuto e il suonatore del liuto pure il suono resta preso..."


"Quando c'è dualità, allora l'uno vede l'altro, lo odora, lo guarda, lo gusta, lo ascolta, gli parla, lo pensa, lo tocca, lo conosce. Ma quando la totalità dell'individuo è il Sé, con che cosa e chi potrà vedere, fiutare, gustare, parlare, ascoltare, toccare, conoscere? Con che cosa potrà conoscersi quello per mezzo del quale tutto l'universo si conosce?
Il Sé può essere definito soltanto in senso negativo: esso è inafferrabile, non è soggetto a decadenza, non è soggetto ad attaccamento, è privo di legami, non teme, non può essere colpito. Chi mai potrebbe conoscere il conoscitore?"


(Brhadaranyaka Upanishad, 4° cap. 5° par., Upanishad vediche, Tea 1988, p. 83-84)

Vuoi conoscere l'universo? Ecco cosa devi fare.

"Non c'è nessun oggetto che si desideri per amore di esso oggetto, bensì si desiderano tutti gli oggetti per amore del proprio sé. E' il sé dunque che bisogna sentire e guardare, è al sé che bisogna pensare e rivolgere la propria attenzione; quando si ascolta, si pensa, si conosce il sé tutto l'universo è conosciuto."

Qui il traduttore usa "sé" per una parola che nel testo originale è diversa da "Atman" - quando nel testo originale c'è questa parola, il traduttore la lascia: Atman, termine che qui ho inteso in vari modi tra cui Sé, con la maiuscola, per indicare un nucleo inconoscibile di ciascuno, un "puro essere" senza storia nel mondo, senza distinzioni quindi senza dualismi - quando questo Sé si apre al mondo e comincia la sua storia, di soggetto in relazione con altre realtà distinte, inizia la storia del sé di cui qui il sapiente parla, che può essere ascoltato, sentito, conosciuto - non è il Sé-Atman, che può essere solo vagamente fiutato, intuito come esistenza, così come è per Schopenhauer la "Volontà di vivere" individuale, parte della "Volontà" del mondo tutto.
Giochi di parole? In parte forse sì, ma è un rischio necessario nel fare queste letture, mi pare, pur ritenendo necessario mantenere un atteggiamento scettico verso l'assunzione di termini che rischiano di diventare realtà immaginarie - quelle realtà create dalla parola e dal pensiero linguistico e non realtà percepite a cui si dà un nome.

(Brhadaranyaka Upanishad, 4° cap. 5° par., Upanishad vediche, Tea 1988, p. 82)

domenica 17 maggio 2015

Ricchezza e immortalità

Il sapiente che ha fin qui risposto alle domande del re, nella quinta "lettura" di questa Upanishad parla con una delle sue due mogli prima di lasciarle tutte e due per vivere la vita di monaco mendicante. Vuole sistemare la situazione delle due mogli, e s'intende in termini economici, poiché la moglie si ritrae dicendo: e che, se anche tutta la terra con le sue ricchezze mi toccasse, io raggiungerei forse l'immortalità?
Il sapiente - di cui ho finora evitato di scrivere il nome complicato ma a forza di averlo sotto il naso mi ci sono quasi abituato seppur a volo di sguardo: Yajnavalkya, che leggo selvaggiamente iaginavalchìa - dunque, Iaginavalchìa, il sapiente, come c'è da aspettarsi, risponde: e no, la tua vita sarebbe "... come quella dei ricchi, ma non dalla ricchezza si può sperare immortalità.", che si può anche leggere: l'immortalità si può sperare ma non viene dalla ricchezza, anche se tu, toccata dalle ricchezze di tutta la terra, vivresti riccamente.

Ci sarebbe da dire qualcosa su quel "come quella dei ricchi", ma mi urge una domanda. La quale domanda s'intende subito, credo: si sperano le cose possibili, quindi seppur non dalla ricchezza deriva l'immortalità, essa è sperabile, cioè possibile? Insomma, vorrei avere l'opportunità che il sapiente ha dato al re, di fargli libere domande, e la mia sarebbe questa: come si può ottenere l'immortalità? Sono sicuro che diventerei ricco, se conoscessi la risposta.

Il sapiente, comunque, tornando alla lettura dell'Upanishad, apprezza l'atteggiamento mentale della moglie - non credo che apprezzerebbe il mio, tendente ad avere sia immortalità che ricchezza, e in mancanza di ricchezza almeno l'immortalità, ma mi chiedo ingenuamente anche: se faccio una vita in miseria, ottenendo l'immortalità vivrei eternamente in miseria? - e si dedica a svelarle qualche verità nascosta della vita.

Dice: "Non a causa dell'amore per il marito è caro il marito, ma a causa dell'amore di sé è caro il marito. Non a causa dell'amore per la moglie è cara la moglie, ma a causa dell'amore di sé è cara la moglie. Non a causa dell'amore per i figli sono cari i figli, ma a causa dell'amore di sé sono cari i figli. Non a causa dell'amore per le ricchezze sono care le ricchezze, ma a causa dell'amore di sé sono care le ricchezze."

Già lo so, caro Iaginavalchìa di sorprendente antichissima sapienza: non stai parlando di egoismo, né di una forma seppur accettabile di narcisimo. Ci scommetto, stai dicendo: solo se tu ami la vita che è in te puoi amare la vita che è negli altri; solo se tu ami l'universo che è in te tu puoi amare l'universo fuori di te. Stai dicendo questo e anche qualcosa in più, più difficile da afferrare - giusto, comunque, anche se, scendendo un poco di livello percettivo per non essere bruciato dalla luce, penso che non è una via a senso unico: l'amore che ricevi dagli altri ha il suo bel ruolo, di reciprocità, per non parlare di quello che è pensabile accada tra madre e bambino appena nato o da poco nato. La madre è cara al bambino certamente anche per l'amore che riceve da lei, da cui probabilmente nasce l'amor di sé che gli permetterà d'amare l'universo. E, scusa se sbriciolo, qualcosa mi sfugge in quell'ultima tua affermazione sulle ricchezze: non ci può essere reciprocità tra me e delle monete d'oro, per cui è chiaro che le amo per amore di me stesso, e degli altri che amo amando me stesso. Che vuoi dire? Che anche i sassi, li amo solo se amo me stesso?

(Brhadaranyaka Upanishad, 4° cap. 5° par., Upanishad vediche, Tea 1988, p. 81)

sabato 16 maggio 2015

Di vita in vita

"Coloro che hanno riconosciuto il respiro del respiro, la vista della vista, l'udito dell'udito, la mente della mente (ossia l'intima essenza di questi fenomeni), costoro hanno compreso l'antico primigenio Essere. 
Soltanto con la mente si può osservare che qui non c'è molteplicità. 
Di morte in morte passa chi quaggiù vede la molteplicità."

(Brhadaranyaka Upanishad, 4° cap. 4° par., Upanishad vediche, Tea 1988, p. 79)

venerdì 15 maggio 2015

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Quando si dice che

"Quando si dice che qualcuno è in un certo modo, qualche altro è in un altro modo, si deve intendere che si diventa tali a seconda delle proprie azioni, del proprio comportamento. Chi bene agisce diventa buono, chi agisce male diventa cattivo, virtuoso diventa con l'azione virtuosa e cattivo con la cattiva. In verità si dice anche che l'uomo è fatto di desiderio: ma quale è il desiderio, tale è la volontà, quale è la volontà, tale è l'azione, quale è l'azione, tale è il risultato che consegue."

(Brhadaranyaka Upanishad, 4° cap. 4° par., Upanishad vediche, Tea 1988, p. 77)

Bene, può andare: lei ha superato tutte le angosce del cuore.

"Quando a lui sembra di essere ucciso, di essere soggiogato, o gli sembra di essere inseguito da un elefante o di cadere in una fossa, quel terrore che prova nello stato di veglia s'immagina di provare anche ora nel sogno. 

Ma lo stato in cui, simile a un dio, simile a un re, pensa di essere questo universo, di essere il tutto, questo stato di sonno profondo è per lui il mondo supremo.

In questa condizione per lui ogni desiderio è superato, ogni male respinto, ogni paura scomparsa. Come l'uomo avvinto alla donna amata non ha più coscienza di ciò che è esterno e di ciò che è interno.


Allora il padre non è più padre, la madre non è più madre, i mondi non sono più mondi, gli dei non sono più dei, il ladro non è più ladro, chi fa abortire non è più infanticida, il servo non è più servo, l'intoccabile non è più intoccabile, il monaco non è più monaco, l'asceta non è più asceta.

Egli non è toccato da azioni buone, non è toccato da azioni malvage: ha superato tutte le angosce del cuore."


Il sogno, dice il sapiente dell'Upanishad, porta con sé le cose vissute e viste nella veglia, desideri e paure che da lì vengono. Il "creatore" frammenta, unisce, distrugge e costruisce gli elementi del mondo della veglia, che "tutto contiene", ma non è nel sogno che l'essere umano vive la pace profonda dell'assenza di ogni distinzione, il puro esserci.

Esperienza reale, questa della pace profonda, dell'assenza di pensiero separante, contabile e giudice, con tutti i desideri e le angosce da cui emerge e produce?

Sì, secondo il sapiente: non è un'invenzione, non è una una fantasticheria, non è un artefatto del pensiero linguistico, bensì percezione e memoria di stati psichici di avvicinamento in entrata e di allontanamento in uscita, per cui possiamo ricordare fino a un certo punto prima di diventare inconsapevoli e da un certo punto subito dopo, e possiamo pensare, avere conoscenza approssimativa e inevitabilmente ipotetica di quei momenti di inconsapevolezza in cui ci siamo infine persi e ritrovati subito dopo - per esempio, dice il sapiente della Upanishad, le volte in cui l'unione amorosa raggiunge coinvolgimento e profondità tali da farci vivere uno stato di estasi - per esempio, da svegli nella quiete profonda, così come, dice ancora il sapiente, nel sonno senza sogni - per esempio, dice Schopenhauer innamorato delle Upanishad, in quei momenti di puro godimento estestico in cui ci incantiamo davanti ad una qualsiasi realtà adeguata a richiamare questa nostra possibilità psichica in cui soggetto e mondo si fondono in un indistinto, unico essere.


(Brhadaranyaka Upanishad, 4° cap. 3° par., Upanishad vediche, Tea 1988, p. 72)

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giovedì 14 maggio 2015

Il creatore

Questo "personaggio" che il sapiente usa per far capire al re cosa è l'Atman, il Sé individuale né cosciente né inconscio, né conoscitore né conosciuto, è "il creatore" che è in ciascuno di noi.
Quando dormiamo, il Sé è "luce a se stesso" e "... prendendo la materia da questo mondo che tutto contiene, disgregandola e costruendola a proprio piacere, mantiene la sua luce e il suo splendore." 

"Volando nel sogno in alto e in basso, egli, che è divino, si crea forme molteplici. Ora ridendo se la gode, ora ha visioni paurose.


Si scorge il luogo dei suoi giochi, ma lui, nessuno lo vede. 


Dopo aver goduto nello stato di quiete profonda, dopo aver girovagato e aver visto il bene e il male, di nuovo per la strada percorsa s'affretta al luogo donde era partito, al sogno. Qualunque cosa abbia visto di là, nessuna lo segue: egli infatti non si attacca a nulla.


Dopo aver goduto nel sogno, dopo aver girovagato e aver visto il male e il bene, di nuovo per la strada percorsa si affretta al luogo donde era partito, allo stato di veglia. Qualunque cosa abbia visto di là, nessuna lo segue: egli infatti non si attacca a nulla.


Dopo aver goduto nello stato di veglia, dopo aver girovagato e aver visto il male e il bene, di nuovo per la strada percorsa si affretta al luogo donde era partito, allo stato di sonno."


Manca qui la ripetizione "qualunque cosa abbia visto di là, nessuna lo segue: egli infatti non si attacca a nulla."
Quindi: dal sogno allo stato di quiete profonda e ritorno, e quando torna nessuna cosa lo segue; dalla veglia al sogno e ritorno, e quando torna nessuna cosa lo segue; dallo stato di sonno alla veglia e ritorno, e quando torna? sembrerebbe che qualcosa lo segue, quando ha goduto nella veglia e girovagato e visto il male e il bene e si addormenta - ciò che invece non avverrebbe quando dal sogno torna alla veglia.

sogno ---- quiete profonda ---- sogno
veglia ---- sogno ---- veglia
sonno ---- veglia ---- sonno

"Come un grosso pesce va dall'una all'altra riva del fiume, ora di qua ora di là, così questo personaggio va dall'uno all'altro stato, dallo stato di sonno allo stato di veglia.

Come il falco o l'aquila, dopo aver volato ora qua ora là nell'aria, stanchi, raccolte le ali, si posano nel loro nido, così questo personaggio s'affretta verso quello stato dove nel sonno non più alcun desiderio concepisce, non più alcun sogno vede."

La differenza tra sonno e sogno è qui netta, e forse si intuisce quando "qualunque cosa abbia visto di là, nessuna lo segue: egli infatti non si attacca a nulla": nel sonno senza sogni e nello stato di quiete profonda.


(Brhadaranyaka Upanishad, 4° cap. 3° par., Upanishad vediche, Tea 1988, pp. 70-72) 

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