mercoledì 31 luglio 2013

Nella carne della terra

 
"Con la stessa necessità con cui la pietra cade a terra, il lupo affamato affonda i suoi denti nella carne della preda, senza possibilità di capire che egli è sia colui che sbrana sia colui che è sbranato."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

martedì 30 luglio 2013

Lo sapeva già








Percepiamo il mondo come è possibile alle nostre strutture biologiche, fenomeni distesi nel tempo e nello spazio, tra di loro in rapporto di causa ed effetto. Uno degli oggetti, dei fenomeni che ci rappresentiamo è il nostro corpo, oggetto tra gli oggetti, fenomeno tra i fenomeni, ma anche qualcosa di più: è l'unica struttura materiale vivente di cui possiamo sentire dall'interno l'essere, il modo, il rumore di fondo, il calore del funzionamento, il fluire. Se  tocco con la mano il mio corpo, posso sentire sia la sensazione della mano che tocca il corpo, come è per qualsiasi altro corpo, sia la sensazione del corpo che viene toccato dalla mano.

lunedì 29 luglio 2013

L'argenteo bagliore della liberazione



Dopo la panoramica sulla santità induista e cristiana, che hanno prodotto indicazioni pressoché identiche per la liberazione radicale dalla inconsapevole sottomissione alla volontà di vivere che ci tratta come ingenui strumenti nelle sue mani impietose, Schopenhauer svela quale è, secondo lui, la seconda via per la liberazione - aveva fatto un preciso accenno all'esistenza di questa seconda via, senza dirne nulla. Ebbene, "l'argenteo bagliore della negazione della volontà di vivere, cioè della liberazione" può essere raggiunto anche con "la sofferenza in generale, come è inflitta dal destino." "Noi possiamo anzi supporre che i più vi arrivano percorrendo questa strada, e che è la sofferenza personalmente sentita e non già quella soltanto pensata ciò che il più frequentemente causa la rassegnazione, spesso soltanto in prossimità della morte."
Insomma, se non vuoi correre il rischio di dannarti inutilmente per tutta la tua vita o quasi, aspettando che un qualche dolore innegabile e indimenticabile ti faccia uscire dal tunnel infinito del continuo desiderare, è meglio che usi il cervello, la conoscenza, il pensiero, per metterti in sicurezza - più o meno, orientativamente, sulla via indicata dai "santi" della storia umana.

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

sabato 27 luglio 2013

L'etica degli Indù


L'etica cristiana è interamente sulla linea della proposta che Schopenhauer sta illustrando, ma "... ancor più sviluppato, più chiaramente enunciato e più vivamente descritto noi troviamo quello che abbiamo chiamato negazione della volontà di vivere nelle antichissime opere della lingua sanscrita. Che quella importante visione etica della vita abbia potuto raggiungere uno sviluppo ancor più avanzato e una decisa espressione è forse da attribuire principalmente al fatto che essa non fu limitata da alcun elemento a lei completamente estraneo, quale è nel cristianesimo la dottrina religiosa ebraica, alla quale il sublime autore di quello dovette necessariamente adattarsi, in parte consapevolmente e in parte forse inconsapevolmente, per cui il Cristianesimo risulta composto di due parti molto eterogenee, delle quali vorrei chiamare cristiana la parte esclusivamente etica, e distinguerla dal preesistente dogmatismo ebraico. Se il Cristianesimo andasse un giorno in rovina, ne cercherei la causa nel fatto che essa consiste non già di un semplice elemento, ma di due, originariamente eterogenei. 
Ora, nell'etica degli Indù, come la vediamo descritta nei Veda, nei Purana, nelle opere dei poeti, nei miti, nelle leggende, nelle sentenze e nelle regole di vita, vediamo prescritto l'amore per il prossimo, con pieno rinnegamento di ogni amore egoistico; l'amore non limitato alla specie umana ma abbracciante ogni essere vivente; la carità fino alla cessione dei propri averi; la sconfinata pazienza verso gli offensori; il ricambiare il male con il bene e l'amore; la sopportazione lieta di ogni umiliazione; l'astensione dal consumo di cibo animale; la castità nella rinuncia alla voluttà da parte di colui che aspira alla santità; il disfarsi delle ricchezze; l'abbandono dei luoghi abitativi e dei parenti per una solitudine totale trascorsa in silenziosa meditazione... Ciò che in un popolo di tanti milioni di esseri umani si è praticato tanto a lungo, in quattro millenni, non può essere un capriccio arbitrariamente escogitato, ma deve avere la sua origine nell'essenza dell'umanità. Ma a questo si aggiunge che non ci meraviglierà mai abbastanza dell'unanimità che si riscontra leggendo la vita di un santo cristiano e quella di un indiano. Nonostante i dogmi, i costumi e gli ambienti così radicalmente diversi, le aspirazioni e la vita interiore di entrambi sono interamente le stesse."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)
 

Abusus optimi pessimus


Per farci capire cosa intende con la sua formula "rinuncia alla volontà di vivere", Schopenhauer in primo luogo suggerisce di leggere approfonditamente le vite degli uomini che hanno coraggiosamente contrastato le motivazioni egoistiche che sono alla base della storia che ci viene tramandata, quasi esclusivamente storia della volontà di vivere.
La storiografia infatti non si occupa dell'uomo umile che ha capito come non farsi incatenare al dolore insito nella vita, e che proprio per questa scelta passa inosservato, non lascia traccia se non nelle persone che lo hanno conosciuto da vicino.
Qualcuno di questi uomini, però, fa parte della storia ufficiale, quasi sempre per la testimonianza di chi li ha conosciuti e ne tramanda la vita e gli insegnamenti.
Cristo è uno di questi, e, scrive Schopenhauer, l'etica cristiana è interamente nello spirito della "rinuncia alla volontà di vivere".
"L'amore per il prossimo, equivalente all'amore di sé, la beneficienza, amore e bene in cambio dell'odio, la pazienza, la sopportazione delle offese senza opporre resistenza, la frugalità del cibo per opporsi alla concupiscenza, possibilmente la completa resistenza all'impulso sessuale: già qui noi vediamo i primi gradi dell'ascesi o della vera e propria negazione della volontà di vivere, che nei vangeli è chiamata negazione di se stessi e l'assunzione su di sé della croce. Questo orientamento diede origine ai penitenti, agli anacoreti e al monachesimo, origine che in sé fu pura e santa, ma ciò che poi ne derivò, a causa dell'inclinazione della maggioranza degli esseri umani, divenne ipocrisia e scelleratezza."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)
 

giovedì 25 luglio 2013

Elisa e Gaia


Crew


Gif


La notte di carnevale


"Ricordiamo che il piacere estetico per il bello per gran parte consiste nel fatto che noi, entrando nello stato di pura contemplazione, siamo momentaneamente esentati da ogni volizione, cioè da tutti i desideri e le preoccupazioni, ci liberiamo quasi di noi stessi; non siamo più l'individuo che conosce allo scopo del suo continuo volere per cui gli oggetti diventano motivi. Sappiamo che questi momenti in cui noi, liberati dall'implacabile impulso della volontà, per così dire emergiamo dalla pesante atmosfera terrestre, sono i più felici a noi conosciuti: da ciò possiamo dedurre quanto beata dev'essere la vita di un uomo la cui volontà non sia placata per attimi, come nel godimento del bello, ma per sempre, sia anzi completamente estinta, eccetto l'ultima brillante scintilla che mantiene il corpo e con esso si estinguerà. Un tale uomo resta per sempre un essere puramente conoscente, un limpido specchio del mondo: nulla lo può più angosciare, nulla lo può più commuovere, poiché egli ha reciso tutti i mille fili del volere che ci tengono legati al mondo e ci trascinano di qua e di là con dolore costante sotto forma di brama, timore, invidia, ira. Egli ora, tranquillamente e sorridendo, volge indietro lo sguardo alle immagini illusorie di questo mondo che furono un tempo capaci di commuovere e tormentare anche il suo animo, ma che adesso gli stanno davanti indifferenti come pezzi di scacchi a fine partita oppure come i vestiti da maschera di cui ci si è sbarazzati la mattina e le cui forme ci avevano preso in giro e inquietato nella notte di carnevale."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


La falsa volpe


Una soluzione agli affanni e ai dolori della vita è, secondo Schopenhauer, quella proposta dai "santi" che sono esistiti in varie parti del mondo e che hanno lasciato le loro memorie, o dei quali sappiamo sulla base dei racconti delle loro vite fatte da chi li ha conosciuti.
Se volete capire la mia formulazione "rinuncia alla volontà di vivere", scrive, andate a leggervi queste biografie, cercate di entrare in quelle vite, assorbirle, capire cosa hanno voluto dire con la loro stessa vita, più che con le loro parole. Anche se queste biografie sono spesso scritte piuttosto male, scrive Schopenhauer, è questo il modo migliore, forse l'unico, per capire qualcosa che è molto difficilmente dicibile, e deve essere compreso con un atto di intuizione e immedesimazione.
E tenete conto del fatto che questi "santi", pur in modi anche molto diversi, con parole di culture molto diverse, con o senza la presenza di un dio nelle loro menti, hanno infine detto fondamentalmente la stessa cosa: questa cosa Schopenhauer la intitola "rinuncia alla volontà di vivere". Così accade che Buddha e Cristo, i mistici occidentali e quelli orientali, e qualsiasi "santo" nel mondo, sono accumunati da Schopenhauer in un solo messaggio all'umanità: se vuoi raggiungere in modo continuo uno stato di pace interiore, devi costantemente praticare la "rinuncia alla volontà di vivere".

Noi, scrive, già lo conosciamo questo stato di pace, di benessere totale: quando ci incantiamo davanti a qualche oggetto del mondo che ci cattura e ci porta al di là di ogni condizionamento, preoccupazione, volontà, al di là di ogni catena causa-effetto, al di là di ogni pensiero di utilità pratica di quell'oggetto o del nostro stato mentale. In quei momenti, noi siamo pura conoscenza, puri osservatori del mondo, pura volontà senza oggetto. Ebbene, scrive Schopenhauer, le vite dei "santi" ci dicono che questo stato di pace in una pura contemplazione del mondo può essere dilatato, può diventare lo stato d'animo continuo, continuamente cercato e da queste persone eccezionali continuamente raggiunto, e noi, anche se non siamo loro, possiamo fare qualcosa di più per aumentare la nostra dose di pace in questa vita, lasciandoci orientare dalla lettura delle vite dei "santi" verso la "rinuncia alla volontà di vivere".

Mi torna quella difficoltà di comprensione che avevo già provato quando osservavo che Schopenhauer avrebbe potuto usare il termine Volontà al maiuscolo per evitare le inevitabili confusioni con le varie volontà umane, quelle che ci portano a fare questo o quello quotidianamente o, per le decisioni più importanti, nel corso della nostra vita. In tedesco il termine è probabilmente sempre scritto in maiuscolo, per cui la differenziazione implicherebbe l'uso di un aggettivo, o un qualsiasi altro segno, che differenziasse la Volontà dalla volontà.
In quest'ultima parte del suo libro Schopenhauer è andato sostituendo la Volontà con la Volontà di vivere, e l'imprecisione del suo dire aumenta. Rinuncia alla volontà di vivere? Infatti è costretto a precisare: non dico mica che uno si lascia morire o si uccide, anche se alcuni "santi" lo hanno fatto.

Caro Schopenhauer,
lo avevamo capito, che non intendevi dire che è meglio lasciarsi morire o uccidersi quando scrivi "rinuncia alla volontà di vivere": è chiaro che non ce l'hai con la volontà di vivere, ma con la volontà di potenza individuale che se ne frega degli altri, li usa come oggetti, vuole dominare, sfruttare, e se trova ostacoli usa ogni mezzo per toglierli di mezzo. Ce l'hai, per dirla con altre parole, con il desiderio che si trasforma in brama ossessiva e diventa una dannazione di sé e di chi è bramato e di tutti quelli che fossero di ostacolo. Tutte le tue analisi della malvagità umana lasciano capire che la volontà di vivere che diventa volontà di potenza sugli altri esseri umani e sulla natura tu la consideri contraria non solo alla pace e al benessere degli altri, ma anche alla pace e al benessere personale, per cui proponi l'opposto di questa volontà di potenza indicando le vite dei vari santi che sono esistiti nel mondo. Va bene, però... Però, in queste vite si può anche leggere l'esercizio di una eccezionale volontà di potenza su se stessi, fino alla rinuncia totale ai piaceri della vita, fossero pure non lesivi di nulla e di nessuno, nemmeno di se stessi. Quando Buddha aveva proposto la via del giusto mezzo, dopo che era quasi morto di fame nell'esercizio del digiuno estremo, non aveva trovato una vivibile volontà di vivere?


lunedì 22 luglio 2013

Il fenomeno più grande che il mondo possa mostrare


"Noi non ci tratterremo dal riconoscere che il fenomeno più grande, più importante e più significativo che il mondo possa mostrare non è il conquistatore del mondo, bensì colui che supera il mondo, in realtà dunque nient'altro che la silenziosa e inapparente condotta di vita di colui al quale è sorta quella conoscenza per la quale abbandona e contrasta in sé quella volontà di vivere che riempie ogni cosa e che in ogni cosa opera ed aspira."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

La vera volpe



La volpe, dopo aver tentato con tutte le sue forze di saltare fino al bellissimo ed alto grappolo d'uva, capisce che non ce la può fare, che più in alto di come ha fatto non riesce a saltare e se continua rischia di farsi male. Anche se i suoi occhi faticano a distogliersi da quel grappolo, riesce a girarsi e si allontana da lì. La rabbia si affaccia al suo respiro, si mette a correre fino a quando sente di star meglio. Riprende il suo passo normale e ripensa al grappolo d'uva: era proprio bello, doveva essere squisito. Ne troverà un altro, altra uva, più bassa, raggiungibile, e se poi l'uva è tutta così alta, troverà altra frutta. Magari un bel melone succulento. Non rinuncerà certo alla sua voglia di frutta dopo un pasto a base d'esopo.


- All rights reserved -

sabato 20 luglio 2013

Si può sapere perché piangi?


"Quando noi siamo mossi al pianto non per le nostre sofferenze, ma per quelle altrui, ciò accade perché ci trasferiamo vivamente con la fantasia al posto del sofferente, o vediamo anche nel suo destino la sorte dell'intera umanità e quindi, soprattutto, la nostra, e allora, dopo un'ampia deviazione, torniamo sempre a piangere su noi stessi, sentiamo compassione per noi stessi."

Questo, scrive Schopenhauer, vale anche per il pianto per la morte di persone care.

"Non è la propria perdita che il dolente piange: ci si vergognerebbe di simili lacrime egoistiche; egli, al contrario, si vergogna a volte di non piangere. Anzitutto egli piange certamente la sorte del defunto, ma questo avviene anche quando la morte è stata una liberazione desiderabile dopo lunghe, grandi e inguaribili sofferenze. Sostanzialmente, dunque, lo coglie la compassione per la sorte di tutta l'umanità, che è vittima della finitezza, in conseguenza della quale ogni vita, anche solerte e ricca di attività, deve spegnersi e finire nel nulla: in questa sorte dell'umanità, però, egli soprattutto vede la propria."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

Old news


Leopardi


Forenoon


domenica 14 luglio 2013

Schopenahuer, analisi del pianto

L'analisi che Schopenahuer fa del pianto umano è un'altra delle sorprese di questa lettura del suo "Il mondo come volontà e rappresentazione". Quello che scrive non è facilissimo a seguirsi.
I passaggi sono questi:

- il pianto, come il riso, è una delle espressioni che distinguono l'uomo dall'animale

- il pianto "non è espressione assoluta del dolore, dal momento che si piange per dolori minimi" (credo voglia dire che non è misura assoluta del dolore, cioè non vale la relazione tanto pianto - tanto dolore, o poco pianto - poco dolore)

- non si piange "... direttamente per il dolore sofferto, ma sempre soltanto per il suo ripetersi nella riflessione"

- accade questo: "Si passa dal dolore sentito, anche se esso è corporeo, alla rappresentazione dello stesso" - bene, allora io piango non per il dolore fisico o psichico immediato, ma per la rappresentazione che mi faccio del dolore che sto sentendo? per la rappresentazione che mi faccio di me che prova quel dolore? non proprio, scrive Schopenhauer: adesso ti dico cosa ti accade passo per passo

- una volta che ci si rappresenta se stessi con quel dolore "... si trova la propria condizione talmente compassionevole che se a sopportarla fosse un altro si sarebbe fermamente e sinceramente convinti che lo si aiuterebbe, pieni di compassione e di amore..." (quindi, nel vedere-rappresentare me stesso con quel dolore che sto sentendo, è come se avessi rapporto con un altro, e sono preso da compassione e pena per quest'altro)

- "... ma siamo noi stessi l'oggetto di quella sincera compassione: con l'animo più disposto ad aiutare, si è noi stessi i bisognosi di aiuto, e si sente che si sopporta più di quello che si potrebbe veder sopportare in un altro..." (questo si capisce subito: per esempio un genitore può accettare un qualche dolore in un figlio amato, ma fino a un certo punto, poiché se lo vedesse soffrire oltre preferirebbe averlo lui stesso quel dolore - qui Schopenhauer scrive che noi, che abbiamo sentito un dolore e ce lo siamo rappresentati e ci siamo visti alle prese con quel dolore, non solo proviamo compassione per quella persona che sono io che sta soffrendo, ma sentiamo che sta sopportando un dolore più forte di quello che mai vorremmo che un'altra persona amata sopportasse)

- "... e in questo stato d'animo singolarmente complesso, in cui la sofferenza immediatamente avvertita è rappresentata come sofferenza altrui, è condivisa come tale e poi, all'improvviso, è di nuovo percepita come direttamente nostra, la natura, mediante quella strana convulsione corporea, si procura sollievo."

- il pianto, dunque, "... è compassione di se stessi, o compassione respinta al suo punto di partenza."

- quindi "... il pianto è condizionato dalla capacità di amore compassionevole e dalla fantasia"

- infatti "... non piangono facilmente né gli uomini duri di cuore né quelli privi di fantasia..."

- per questo "... il pianto è anche considerato sempre un sintomo di un certo grado di bontà del carattere e disarma l'ira, poiché si sente che chi è ancora capace di piangere dev'essere anche necessariamente capace d'amore, cioè di compassione per gli altri, proprio perché questa entra in quello stato d'animo che porta al pianto."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

Totem


sabato 13 luglio 2013

Ambo



"Ogni amore puro e vero è compassione, e ogni amore che non è compassione è egoismo. L'eros, la brama amorosa, è egoismo; l'amore puro, agape, è compassione. Spesso entrambi si trovano insieme. Persino la vera amicizio è sempre una mescolanza di egoismo e compassione: è egoismo il provar piacere per la presenza dell'amico; è compassione la sincera partecipazione al suo benessere e al suo dolore e i sacrifici disinteressati che si fanno per lui."

Qui Schopenhauer esplicita cosa intende per compassione, anche se si capisce dall'insieme del suo dire. Compassione è sincera partecipazione al benessere o al dolore dell'altro, ed è azione disinteressata in suo favore.

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

Ogni amore




Ora, scrive Schopenhauer, ora, prima che vada a mostrarvi "... come l'amore conduca alla liberazione, cioè alla totale rinuncia alla volontà di vivere, ossia ad ogni volere, ed anche come un'altra strada, meno agevole tuttavia più frequente, porti l'uomo alla stessa meta", prima che vada a mostrarvi queste due vie di liberazione devo enunciare e spiegare "un principio che fa parte integrante del pensiero che sto per esporvi".

Il principio è questo: "Ogni amore (agape, caritas) è compassione".

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)
 




giovedì 11 luglio 2013

Torgenzanese


Mirabilis jalapa


Questioni di interesse





"L'egoista si sente circondato da fenomeni estranei e nemici, e tutta la sua speranza si basa sul proprio benessere. Il buono vive in un mondo di fenomeni amici: il benessere di ognuno di quelli è il suo proprio. Perciò, quantunque la conoscenza del destino umano in generale non renda lieto il suo stato d'animo, tuttavia la costante conoscenza della sua propria essenza in ogni essere vivente gli dà un certo equilibrio e persino una certa serenità d'animo. Infatti, l'interesse allargato ad innumerevoli fenomeni non può preoccupare come quello concentrato su uno solo."

(Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

mercoledì 10 luglio 2013

L'architetto e gli indù


L'uomo nobile non si fa ingannare dalla distanza che può mettere tra sé e gli altri.
"Egli diviene consapevole che la differenza tra lui e gli altri, che per il malvagio è un abisso così grande, appartiene soltanto ad una apparenza transitoria e ingannevole: egli conosce, direttamente e senza argomentazioni, quella volontà di vivere che costituisce l'essenza di ognuno e che vive nel tutto; anzi, egli riconosce che tale essenza si estende persino agli animali e alla natura intera: di conseguenza egli non tormenterà neppure un animale."

A questa impegnativa affermazione Schopenhauer fa seguire una nota:
"Il diritto dell'uomo sulla vita e le forze degli animali si fonda sulla opinione che, poiché la sofferenza aumenta nella stessa misura in cui aumenta la chiarezza della coscienza, il dolore che patisce l'animale per la morte o per il lavoro non è così grande come quello che patirebbe l'uomo per la mancanza della carne o delle forze dell'animale. L'uomo, dunque, nell'affermazione della propria esistenza, può arrivare fino alla negazione dell'esistenza dell'animale, e la volontà di vivere ne avrebbe, nel complesso, meno sofferenza di quella che si avrebbe mantenendo questa esistenza. Ciò determina, al tempo stesso, il grado d'uso che può fare l'uomo della vita e delle forze dell'animale senza commettere ingiustizia: un uso che spesso viene trasceso. Quel diritto non può estendersi comunque, a mio parere, alle vivisezioni, soprattutto degli animali superiori. L'insetto, invece, con la sua morte non soffre tanto quanto l'uomo per la sua puntura: gli indù questo non lo condividono."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

domenica 7 luglio 2013

Non basta aprire le palpebre per vedere


"E' giusto colui che riconosce quel confine puramente morale tra giusto ed ingiusto e lo fa valere anche quando lo Stato o un altro potere non lo difendono, nell'affermazione della propria volontà che non arriva mai a negare quella degli altri, senza infliggere sofferenze ad altri per accrescere il proprio benessere. Il giusto non afferma la manifestazione della propria volontà negando tutte le altre: gli altri non sono soltanto delle semplici larve la cui essenza è totalmente diversa dalla sua; con il suo modo di agire egli mostra di riconoscere la propria essenza, cioè la volontà di vivere, anche negli altri, e in questo grado la sua visione trapassa il velo di Maya, e mette pertanto l'essere che sta fuori di sé sullo stesso piano del proprio: non lo ferisce."

La condotta giusta, dunque, è l'effetto di una percezione-visione-conoscenza che va al di là della rappresentazione di alterità assoluta tra sé e il resto del mondo.

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

Genzano sunset


sabato 6 luglio 2013

Over


Quando è il caso di dire che non si può dire


"La vera bontà d'animo, la virtù disinteressata e la pura magnanimità non derivano dalla conoscenza astratta, ma pur sempre dalla conoscenza: quella immediata e intuitiva, che non si può eliminare o sostenere con argomentazioni, una conoscenza che non si può neppure comunicare, che sorge spontaneamente in ognuno e non trova adeguata espressione nelle parole ma esclusivamente nelle azioni, nella condotta, nella vita dell'uomo."

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

Out of the dark