martedì 11 febbraio 2014

Perché? Perché? Perché?

"Popper - scrive Bryan Magee che lo conosceva bene - è anzitutto un realista. Crede che la realtà non si esaurisca nella mente dell'uomo."
Noi, secondo Popper ma anche secondo tanti di noi, ci troviamo immersi in un universo che ha una sua esistenza indipendente dalla nostra percezione e dalla nostra conoscenza: la nostra mente, noi, facciamo parte dell'universo, siamo contenuti dall'universo, anche se qualche volta possiamo essere portati a pensare che siamo noi a contenere l'universo, nella nostra mente, percependolo, pensandolo.

Al di là della percezione delle cose e dei fenomeni, formiamo delle ipotesi e teorie su come funziona il mondo, sui perché delle cose e dei fenomeni, e utilizziamo le ipotesi e teorie che ci spiegano meglio le cose e i fenomeni fino a che non le sostituiamo con altre ipotesi e teorie migliori. "La conoscenza umana è interamente costituita da teorie, che sono il prodotto della nostra mente: si badi bene, non è il mondo ad essere prodotto dalla nostra mente, bensì la conoscenza del mondo."


Insomma, noi con la percezione arriviamo all'esistenza delle cose e dei fenomeni - almeno di solito è così - e con il pensiero arriviamo alla conoscenza dei perché le cose esistono e i fenomeni avvengono, e tutta la nostra conoscenza è teorica, ipotetica, e dovrebbe quindi sempre essere aperta a nuove teorie ed ipotesi che ci spieghino la realtà meglio delle ipotesi e teorie precedenti.


(B. Magee, L'arte di stupirsi, Mondadori)

lunedì 10 febbraio 2014

Come fai quello che fai?


"Aristotele affermava che la «vita è azione e non produzione». L’azione, infatti, mette gli uomini in relazione tra loro: è inevitabilmente relazionale. Non è detto che questo lo faccia il produrre. Il fare, infatti, non è di per sé un agire anche se non è possibile alcun agire senza saper il fare. Per questo fare e agire sono termini che tendono a sovrapporsi fino a confondersi. Ma non significano la stessa cosa. Infatti, il sapere fare qualcosa non è una ragione sufficiente perché la si faccia. E, al contrario, l’agire significa reperire le ragioni.

I Greci per dire fare impiegavano tre termini: praxis, techne, poiesis. Con queste parole intendevano – grosso modo come noi – l’agire, il fabbricare, il produrre. La differenza tra i termini, già ci suggerisce che fare ed agire non significano esattamente la stessa cosa. La parola praxis in greco vuol dire azione, ma può assumere, a seconda dei contesti, significati diversi come affare, faccenda, perfino cosa. Il suo significato peculiare lo si comprende con maggiore chiarezza se si prende in considerazione la radice del verbo prattein –  prag – che è la stessa del verbo perao, che significa occuparsi di… e soprattutto portare a destinazione. L’agire è dunque un fare nel senso precipuo del darsi pensiero, dell’indirizzare, del portare a compimento e per questo si distingue dal fare inteso come produrre.

La definizione classica di uomo è, come è noto, quella di animale razionale. Ma a una più attenta considerazione non risulterebbe sbagliato dire che l’uomo è azione. L’uomo, venendo all’essere, si determina originariamente come azione perché viene a trovarsi entro uno spazio aperto di possibilità, anzi è egli stesso l’apertura di questo spazio. Una volta posto in questo spazio l’uomo deve inevitabilmente orientarsi in esso, è perciò naturalmente spinto a dare direzione al suo movimento, pena è il perdersi. Ebbene, se l’uomo è l’ente originariamente aperto al senso, si può dire che è azione: è praxis. L’agire non è dunque un semplice fare, ma consiste propriamente nel dar senso a quel che si fa e nel trasformare.

Certo, il lavoro nella sua forma primaria ed elementare si presenta come una lotta contro la necessità e perciò ha da sempre dai tratti della fatica. Per dirla con Pavese, lavorare stanca. Tuttavia, nella storia evolutiva dell’uomo, il lavoro da mezzo per fronteggiare l’indigenza si è sempre di più trasformato in manifestazione di potenza e ha trovato la sua massima espansione nella moltiplicazione illimitata delle tecniche. Faber è quindi l’uomo che non lavora semplicemente per sopravvivere, ma chi si realizza nel produrre, vincendo la resistenza della materia, trasformandola, imprimendole nuove forme; e così, alla lunga, il “piacere di fare” l’ha vinta sulla “fatica del produrre” e il lavoro, pur non cessando d’essere un peso, trova soddisfazione nella pienezza del risultato. La fatica trova così il suo riscatto nell’opera.

Certo, per trarre soddisfazione dal proprio lavoro è necessario in primo luogo farlo bene. A molti capita di dovere svolgere lavori di poco gradimento, dove riescono male perché non sono adatti per loro. Tuttavia, qualunque sia il lavoro, se ben fatto è pur sempre un risultato, è prova di capacità e anche motivo d’apprezzamento da parte degli altri, degli acquirenti di beni o beneficiari di servizi. È vero, il merito può essere disconosciuto, ma la consapevolezza per il lavoro ben fatto rafforza di per sé l’autostima, e quand’anche non c’è apprezzamento, ci autorizza a rivendicare il rispetto.

Per molti, come ho detto, il lavoro resta comunque obbligato e stressante, e non a tutti è concesso di scegliere, di realizzare, come si diceva un tempo, la propria vocazione. In taluni casi, ci si deve ritenere fortunati per averlo trovato e non c’è che da adattarsi. Ma le cose non stanno proprio così. Per valorizzarsi nel lavoro e dare a esso valore, bisogna viverlo come reciproco servizio. Servizio e reciprocità: la reciprocità è un libero mettersi a disposizione, è benevolenza e questo taglia alla radice l’asservimento a qualsiasi signore. Per fare questo non è necessario cambiare lavoro, ma cambiare mente, conferire a quel che già si fa un diverso senso, non concepirlo mai in termini strettamente individualisti. Lavoro è la fedeltà al compito assegnato, è ciò che la tradizione cristiana chiamava dovere di stato, è il Beruf di Weber: il mestiere come missione. Se il lavoro che si fa, lo si considera in questa prospettiva, ogni lavoro acquista valore anche se non dà immediata soddisfazione. Ed è la dimensione relazionale e interpersonale propria dell’agire a conferire a ogni fare, anche a quello più anonimo e di routine, mèta e destino ed è facile capire perché: se faccio un lavoro che non mi soddisfa, ma con esso mantengo la mia famiglia, i miei figli, lavoro nella speranza che a loro possa essere concesso di fare quel che per me non è stato possibile fare la mia fatica è riscattata. Se faccio l’infermiere – lavoro in genere poco amato –  do sollievo a chi soffre. Posso, certo, limitarmi a erogare un servizio, ma meglio lo faccio se sono capace di ascoltare la voce di chi soffre. Il lavoro così vissuto si chiama dedizione. Nessuna fatica è sprecata se produce bene e tutti possono trarre soddisfazione se vivono il lavoro non solo come una prestazione obbligata ma come una relazione altruistica. Alla luce di questa relazione, il lavoro guadagna una qualità morale che permette a chiunque – e qualunque lavoro eserciti – di poterlo vivere come una realizzazione personale.

Ho detto che bisogna lavorare con responsabilità: per responsabilità, abitualmente, s’intende l’obbligo di rendere conto agli altri di quel che si è fatto e di come lo si è fatto; ma la parola responsabilità significa molto di più: deriva, infatti dal latino respondeo, rispondo. Ora,  rispondere non significa solo dar conto di quel che si è fatto, ma anche dare risposta alle domande dell’altro, alle sue richieste, ai suoi bisogni. In questo reciproco corrispondersi, ogni fare – materiale, intellettuale, sociale, politico – prende il nome di vocazione, e non tanto per indicare una personale attitudine, ma più autenticamente la risposta a una chiamata, a una voce, alle voci degli altri. Questo modo di concepire il lavoro comincia a prendere piede e ne è prova il lento ma crescente diffondersi delle economie del dono."

dalla Intervista a Salvatore Natoli di Carlo Crosato, Micromega:

http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/01/30/per-un-pensiero-del-finito-intervista-a-salvatore-natoli/#more-1020

And leave the corpses behind


Eppur fiorisce