venerdì 30 maggio 2014

Non per te questa vita si svolge

"Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell'universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma piuttosto vieni generato per la vita cosmica."

(Platone, Leggi, citato in U. Galimberti, La casa di Psiche)

Le regole per aver inconscio della ragione

"Freud non ha scoperto l'inconscio, che se mai ha scoperto Schopenhauer, Freud ha scoperto le regole per aver ragione dell'inconscio; la sua "psicologia" è una celebrazione della potenza della ragione sulle pulsioni che la minacciano. A differenza di Freud, Nietzsche pensa l'inconscio non come il contrario della ragione, ma come l'articolazione delle stesse forze che compongono lo spazio della ragione e che sono alla ricerca del loro punto di equilibrio. Scrive infatti Nietzsche:
<Che cosa significa conoscere? Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere! dice Spinoza... Che cos'è in ultima analisi questo intelligere se non il risultato dei tre diversi e tra loro contradditori impulsi a voler schernire, compatire, detestare? ... Noi, che siamo consapevoli solo delle ultime fasi della conciliazione, riteniamo perciò che intelligere sia qualcosa di conciliante, di giusto, di buono, qualcosa di essenzialmente contrapposto agli impulsi, mentre esso è soltanto un certo rapporto degli impulsi tra di loro.>  (Nietzsche, La gaia scienza)
Così nasce la ragione. Non la ragione contro la forza delle pulsioni, ma la ragione come composizione delle forze pulsionali. Questo è quanto ci insegna la storia della filosofia sul piano del metodo e della genealogia storica, a partire dal mito platonica dell'auriga, le cui briglie altro non sono che le regole con cui l'anima razionale, allentando e trattenendo, mantiene l'andatura."

(U. Galimberti, La casa di Psiche)
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Ma, andando di parola e logica: se è come scriveva Nietzsche, se in noi avviene un gioco di impulsi inconsci che vanno a conciliarsi tra loro nell'atto della conoscenza, se la ragione è composizione di forze pulsionali, da dove viene la distruttività umana?

Indovina chi c'era a cena


"Nella cerchia dei seguaci di Gesù c’erano diverse donne, scrivete nel vostro libro. Aggiungendo che tutte avevano un ruolo rilevante, e non solo per l’aiuto materiale che potevano fornire. Partecipavano quindi integralmente al movimento gesuano. Per la teologia femminista è impensabile che non fossero presenti anche all'ultima cena."

"È molto verosimile che le seguaci fossero presenti all’ultima cena... Gesù, ad esempio, si opponeva al diritto maschile di ripudiare le mogli. Questo suscitava forti opposizioni nel mondo circostante e dunque comportava conseguenze di vasta portata. Il rifiuto del ripudio garantisce una precisa collocazione delle donne e non può non aver avuto peso sull’intero seguito di Gesù... 
La presenza delle donne alla croce e al seppellimento è sintomatica... Ci siamo convinti che la prima trasmissione delle notizie della morte di Gesù non poteva non provenire da soggetti femminili. Il Vangelo di Luca insiste molto su questi aspetti. E sostiene che un vasto gruppo di donne fu, per lungo tempo, con Gesù sia in Galilea che a Gerusalemme.
Il ruolo così importante delle donne in Gesù e nel suo movimento verrà negato poco alla volta nei decenni successivi alla morte di Gesù perché le chiese verranno organizzate secondo i criteri dell’onore pubblico maschile... mettendo da parte le donne o confinandole entro ambiti tradizionali, inferiori.
"

"Nel libro fate riferimento a un’interpretazione della morte di Gesù che non teneva conto della sua risurrezione. E parlate della resurrezione come di una forma di riabilitazione rispetto all’uccisione violenta di Gesù."

"...  La risurrezione può apparire la risposta o la soluzione che annulla il dramma, che colma il vuoto creato dalla morte... per i primi seguaci molto più importante della resurrezione era la convinzione che Gesù sarebbe ritornato presto, una seconda volta, per far iniziare il regno che aveva annunciato e in cui i seguaci continuavano a credere."

("MicroMega", dall'intervista  di Valerio Gigante a Mauro Pesce e Adriana Destro, autori del libro "La morte di Gesù", Mondadori 2014)

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L'immagine  dell'Ultima cena che ho messo è quella di Jacopo Robusti detto il Tintoretto.
E questo è un suo autoritratto.  


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giovedì 29 maggio 2014

Quando diciamo "io"

Per Nietzsche, scrive Galimberti, il soggetto, l'io, non è un dato, è una interpretazione del nostro mondo interiore: "io" è una rappresentazione, una immagine messa sullo sfondo delle sensazioni che provengono dal nostro corpo.

"Pensare il soggetto infatti significa per Nietzsche conferire sostanzialità a un fascio di sensazioni che abbiamo raggruppato sotto la categoria dell'eguaglianza, per cui: <Soggetto è la finzione derivante dall'immaginare che molti stati uguali in noi siano opera di un solo sostrato, ma siamo noi che abbiamo creato l'uguaglianza di questi stati; il dato di fatto è il nostro farli uguali e sistemarli, non l'uguaglianza, che anzi è da rifiutare.> (Nietzsche, Frammenti postumi)

Il soggetto, così come la coscienza, l'Io, è una categoria voluta, creduta. E come ogni credenza, anche questa può essere una condizione di vita, ma ciò non la esonera dall'esser falsa. Del resto, si domanda Nietzsche, quale bisogno ha portato l'uomo a rappresentarsi il soggetto se non il desiderio di impadronirsi della realtà, onde evitare la sua imprevedibilità?"

(U. Galimberti, La casa di Psiche)

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"... la finzione derivante dall'immaginare che molti stati uguali in noi siano opera di un solo sostrato..." ma questa uguaglianza non è vera, è una interpretazione falsa usata per difendere una rigida identità. Per cui, quando penso e dico "io", presuppongo che vi sia una "cosa" in me che chiamo "io" e che è sempre la stessa - sempre uguale a se stessa.
Così non è, dice Nietzsche, e non solo lui: l'inesistenza dell'Io è una delle indicazioni di base del pensiero buddhista, come è stata indicazione anche di altri filosofi occidentali - per esempio Hume.

Capisco. Però, quando leggo dell'inesistenza dell'Io, ho sempre una perplessità, una resistenza: sarà il mio "io" che si ribella, che non vuole scendere dal suo trono.
Per esempio, mi chiedo: se sento e penso che "molti stati simili in noi siano opera di un solo sostrato", e presuppongo che vi sia una funzione in me, un modo di avere esperienza, che chiamo "io" e lo vivo e lo penso nel tempo non uguale a se stesso, bensì simile, è una finzione, una falsità?

Agli effetti pratici, comunque, mi sembra certamente preziosa questa indicazione, implicita nel pensiero dell'inesistenza dell'Io: stai attento a quando pensi e dici "io", pensa a te stesso come un vivente, che va di esperienza in esperienza, che cambia, e anche se puoi dire "io", anche se mantieni una riconoscibilità, una somiglianza più o meno forte con te stesso di dieci minuti fa o dieci anni fa, evita di incastrarti in una rigidità di uguaglianza - questa sì, sarebbe, è, una finzione, una falsità.


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mercoledì 28 maggio 2014

Psicoterapia, psicologia, psichiatria

La psicoterapia è una pratica, una terapia basata sul rapporto tra due persone che si incontrano con lo scopo di risolvere sofferenze di natura non strettamente fisica. Se fatta da psichiatri, può comprendere l'uso di neurofarmaci - gli psicofarmaci non esistono, esistono neurofarmaci, che possono curare il corpo: Psiche si cura con Psiche. Se un farmaco mi calma, può permettermi di attingere a immagini, pensieri, emozioni, gesti, parole, che possono curarmi, ma se non ci sono questi, resto psichicamente malato, anche se calmo.

La psicologia è lo studio delle manifestazioni di quella nostra dimensione complessa che chiamiamo Psiche, Mente, Anima, la quale è sì strettamente connessa con la nostra fisicità, ma è altro da essa - la nostra fisicità la possiamo studiare con le scienze fisiche, la nostra dimensione psichica sfugge a questo tipo di scienza.
La psicologia si occupa anche della psicoterapia, ma una cosa è fare psicologia, altra cosa è fare psicoterapia. La formazione in psicologia non insegna a fare psicoterapia, nemmeno per lo Stato, che chiede ai laureati in Psicologia un ulteriore periodo di formazione teorica e pratica per diventare psicoterapeuti. Così come non basta essere medici: dopo la laurea occorre lo stesso periodo di formazione in psicoterapia, nelle stesse scuole dove vanno gli psicologi.

Altra cosa è la psichiatria, che è una specializzazione medica successiva alla laurea, e si occupa delle malattie psichiche con approccio diverso da quello delle scuole di psicoterapia e prevede anche l'uso di neurofarmaci. Per lo Stato, gli psichiatri possono definirsi psicoterapeuti e fare psicoterapia anche se non hanno compiuto un corso di formazione specifica in psicoterapia.

Il mio primo didatta è stato un medico psichiatra che a un certo punto della sua vita professionale aveva sentito la necessità di compiere l'iter di formazione in psicoanalisi.
Può essere utile, per toccare la differenza tra psicoterapia e psicologia, quello che mi disse proprio quel didatta: "Le migliori psicoterapie sono quelle in cui il paziente è guarito senza sapere perché."
A distanza di molti anni posso aggiungere che non è necessario che lo psicoterapeuta sappia perché. Deve sapere come, non perché.

Se no, sta' zitta e scansati


La scienza - scrive Galimberti - esige un "intelletto puro che lascia fuori di sé ogni sorta di condizionamento psicologico."  La psiche dello scienziato, la sua soggettività, non deve interferire con la ricerca, che deve essere oggettiva.
"Può la psicologia prodursi come scienza senza abolire se stessa?"

Husserl: "Nessuna conoscenza oggettiva può conoscere la soggettività."

(U. Galimberti, La casa di Psiche)

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Posso osservare quello che l'altro fa, le sue  manifestazioni fisiche, come si muove, le minime espressioni del corpo e del viso, posso registrare con strumenti fini attività di organi del suo corpo, registrare tutto quello che dice facendo attenzione a tutti gli aspetti della sua comunicazione - ma il vissuto intimo, la sua soggettività, è cosa sua, e di nessuna scienza oggettiva.

Dunque, cara psicologia, tu non puoi essere come altre "scienze della natura", e quando lo fai finisci con lo studiare cose che non servono a nessuno. Noi invece vogliamo da te risposte utili, su aspetti importanti per la nostra vita. Se non è possibile, cara, taci - di bugie, di illusioni, di chiacchiere vuote e raggiri ne abbiamo palle millenarie, non ti ci mettere pure tu.

E' possibile, una psicologia utile, una psicologia se non proprio scientifica come la fisica o la biologia, almeno rigorosa quanto basta per poter capire: questa è cosa vera, questa può esser vera, questa invece è una chiacchiera presuntuosa?

martedì 27 maggio 2014

Occhio per occhio

"Se un occhio - scrive Platone - guarda un altro occhio e fissa la parte migliore dell'occhio con la quale anche vede, vedrà se stesso"

(U. Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli)
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Vedrà l'immagine riflessa di sé.

I computers non nascono


Nietzsche: buddhismo e cristianesimo

"Con la morte sulla croce ha fine un nuovo inizio del tutto originario per un buddhistico movimento di pace, per una effettiva felicità sulla terra, non soltanto promessa. Poiché questa rimane la fondamentale differenza tra le due religioni: il buddhismo non promette, ma mantiene, il cristianesimo promette tutto, ma non mantiene nulla. Alla buona novella seguì presto la peggiore di tutte: quella di Paolo. La vita, l'esempio, la dottrina, la morte, il significato e il diritto dell'intero Vangelo - nulla esistette più, quando questo falsario per odio comprese che cosa solo poteva servirgli: non la realtà, non la verità storica."

(Nietzsche, L'Anticristo, 42)

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lunedì 26 maggio 2014

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Come restare padroni


"Nel corso dei tempi l'umanità ha dovuto sopportare due grandi mortificazioni che la scienza ha recato al suo ingenuo amor di sé. La prima, quando apprese che la nostra Terra non è al centro dell'universo, bensì una minuscola particella di un sistema cosmico che, quanto a grandezza, è difficilmente immaginabile. La seconda mortificazione si è verificata quando la ricerca biologica annientò la pretesa posizione di privilegio dell'uomo nella creazione, gli dimostrò la sua provenienza animale e l'inestirpabilità della sua natura animale. La terza e più scottante mortificazione la megalomania dell'uomo è destinata a subirla dalla odierna indagine psicologica, la quale dimostra all'Io che non solo non è padrone in casa propria, ma deve fare assegnamento su scarse notizie riguardo a quello che avviene inconsciamente nella sua psiche. "

(S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi)
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Non è vero niente. Il centro dell'universo è casa mia, il mio quartiere, la mia città - casa mia, o quel pezzo di terra su cui sto poggiando i piedi o le ruote della mia macchina: questo, è il centro dell'universo.
Che io sia un animale, che non sia stato creato da dio a sua immagine e somiglianza, sai quanto me ne frega! L'importante è che sono vivo e vegeto e che posso disporre di armi per ammazzare qualsiasi animale mi rompesse le palle - o lo metto sotto con la mia macchina, figurati!
Quanto alla storiella dell'inconscio, poi,  ma quale indagine, ma quale scienza! - tutte balle, tutte scuse per non rinchiudere per sempre tutti i pazzi che girano per strada o per non mandare ai lavori forzati tutti gli smidollati piagnucolosi e viziati del giorno d'oggi.
Ma chi è questo Freud? Ma lo mettessero per qualche mese davanti a un televisore acceso con gli occhi sbarrati  - sai, come quel delinquente dell'Arancia meccanica - e poi lo andasse a dire a Berlusconi, che non è padrone in casa sua, o che è mortificato!

Come diventare padroni


"Noi sappiamo, la nostra coscienza oggi sa quanto esattamente valgono, a che cosa servivano le sinistre invenzioni dei preti e della Chiesa - le nozioni di al di là, giudizio universale, immortalità dell'anima, la stessa anima: sono strumenti di tortura, sono sistemi di crudeltà in forza dei quali il prete divenne padrone e restò padrone...
Tutti lo sanno eppure tutto rimane come prima. Dove è finito l'ultimo brandello di decenza, quando perfino i nostri uomini di Stato, specie di uomini spregiudicatissimi e anticristiani da cima a fondo nelle loro azioni, ancor oggi si chiamano cristiani e s'accostano all'eucarestia?"

(Nietsche, L'Anticristo, 38)

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"... specie di uomini spregiudicatissimi e anticristiani..." - qui Nietsche dovrebbe dire "anticristo" e non "anticristiani": visto che lui considera i cristiani e il cristianesimo l'Anticristo sulla terra, gli uomini di Stato di cui parla si comportano proprio da cristiani.

Per quanto riguarda l'anima e la sua immortalità, ricordo Galimberti dire che il concetto di anima non è della cultura cristiana, e nemmeno quello di immortalità dell'anima: per i cristiani l'immortalità, la resurrezione, è dei corpi, con nome e cognome: tu non morirai mai, è "il colpo geniale" in quella che Nietzsche chiama "astuzia della fede".


domenica 25 maggio 2014

Nietzsche anticristo?

E' il titolo del suo scritto: Der Antichrist, L'Anticristo.
Ma il senso di questo titolo non è "Io sono contro Cristo", bensì: "Nel corso del mio scritto ti dirò chi è l'Anticristo." E l'Anticristo, per Nietsche, è il cristianesimo.

Scrive:" In realtà è esistito un solo cristiano, e quello è morto sulla croce. E' sbagliato vedere in una fede il contrassegno del cristiano: solo la pratica cristiana, un vivere come colui che morì sulla croce è cristiano... Ancora oggi una vita del genere è possibile, per certi uomini perfino necessaria: il cristianesimo vero, quello originario, sarà possibile in ogni tempo... Non un credere, bensì un fare, soprattutto un non-fare-molte-cose, un diverso essere. Gli stati della coscienza, una qualsiasi fede, un tener-per-vero sono del tutto irrilevanti... Ridurre l'essere-cristiani, la cristianità, ad un tener-per-vero, ad una mera fenomenalità della coscienza, significa negare la cristianità. In realtà non sono affatto esistiti dei cristiani. Ciò che da due millenni ha nome cristiano non è altro che un fraintendimento psicologico di se stessi. La <<fede>> è stata la particolare astuzia cristiana."

(Nietzsche, Anticristo, 39)

sabato 24 maggio 2014


La fantasia di sparizione


  "Io chiamo bugia il non voler vedere qualcosa che si vede, il non voler vedere qualcosa così come la vediamo. La bugia più comune è quella con cui si mente a se stessi; il mentire agli altri è caso relativamente eccezionale."

(Nietzsche, L'Anticristo, 55)

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Però, non male questi filosofi.

"Il non voler vedere qualcosa che si vede" porta all'evitamento, che, se inconscio, è assai potente, anzi: onnipotente, fa sparire la cosa che non si vuole vedere (la "fantasia di sparizione" di Massimo Fagioli, da lui teorizzata come espressione psichica dell'istinto di morte - la fantasia di sparizione si esplica contro le immagini, non contro la realtà - contro la realtà, poi, può esplicarsi la distruttività fisica).

"Il non voler vedere qualcosa così come la vediamo" porta alla negazione: la cosa è, c'è, esiste, ma non è come è. Arma tremenda - ne sappiamo qualcosa, noi Italiani, negli ultimi anni abbiamo subìto bombardamenti a tappeto, negatoni e arcinegatoni di gas  - guerra psicochimica, proibita, ma siccome fa parte della negazione la negazione della negazione, c'è solo da sperare che i bombardatori leggano Nietzsche e diventi "relativamente eccezionale" mentire agli altri.


venerdì 23 maggio 2014

Se i nostri sogni sono sogni


Nel dualismo coscienza/inconscio, scrive Galimberti, "... la psicoanalisi di Freud sembra ricalcare alla lettera la filosofia della natura di Schopenhauer."
Schopenhauer aveva capito che la nostra vita psichica inconscia, quella della nostra "Volontà di vivere" di cui siamo strumento, da cui siamo vissuti mentre pensiamo che sia la nostra coscienza a guidare la nostra vita, è fuori del tempo e dello spazio con cui ci rappresentiamo il mondo e il nostro andare in esso, non rispetta il principio di non contraddizione e quello di causalità - insomma, a livelli di cui non abbiamo consapevolezza, non abbiamo una storia e non siamo individuabili. Laggiù, è come nei nostri sogni, scrive Schopenhauer, possiamo passare da un tempo all'altro, da un luogo all'altro, da una identità all'altra - essere figli dei nostri figli.
"Il sogno - scrive Schopenhauer - è simile alla follia." ed è "... lo strumento di cui si serve la nostra onniscienza sognante per far giungere possibilmente qualcosa all'ignoranza della nostra veglia."
Come Schopenhauer, Freud pensa che "Il sogno è una psicosi, con tutte le sue assurdità, le formazioni deliranti, le illusioni sensoriali proprie delle psicosi."

(U. Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli)
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L'affermazione che il sogno è come la follia, o che in ognuno di noi c'è la follia, mi sembra un errore non da poco.  Non è vero che il sogno è come la follia, o che in ciascuno di noi c'è la follia.
Follia è realtà di relazione, di interazione, tra i nostri processi consci con quelli inconsci. Se l'equilibrio tra questi processi psichici salta, allora emerge la follia, allora l'inconscio non è più inconscio e il sogno non è più sogno.
Se io sogno da sveglio, e penso, dico, mi comporto come se fossi un bambino piccolo, come se fossi figlio di mio figlio e sono certo di questo fatto impossibile, fuori del tempo, dello spazio e della causalità, se sono certo che non è un come se ma è realtà fisica, allora sono impazzito, allora è follia.
Ma se io sto dormendo, e sogno questa realtà fuori di tempo spazio causalità, è sogno, non è follia. O anche, se sto sveglio e dico che mi sento figlio di mio figlio, che è come se lo fossi per certi aspetti, ma so bene che sono suo padre, è avvertimento di aspetti irrazionali della vita, non è follia.
L'insieme che io sono, di razionalità e irrazionalità, mantiene una integrazione, un equilibrio, e fin quando vivono in me questa integrazione e questo equilibrio tutto ciò che è mio, compresi i sogni e i  processi inconsci, non è follia.
Di più: non è equilibrio precario, per la maggior parte di noi. Ho visto soffrire acutamente e a lungo persone che, come la maggior parte di noi, non avevano la possibilità di impazzire, non avevano la possibilità della disintegrazione, della scissione, della schizofrenia.
E lo schizofrenico, il folle, non ha niente a che vedere con il bambino o con il selvaggio, come ogni tanto si legge o si sente dire erroneamente: è tutt'altro essere, tutt'altro equilibrio rispetto a quello da cui nascono i sogni, le creazioni artistiche o la bellezza unica, un po' selvaggia, vitalmente sorprendente, delle nostre individualità.
Dire che "il sogno è una psicosi" è dire che l'equilibrio tra coscienza e inconscio è la mancanza di questo equilibrio. Questo dire, è folle, non il sogno di chi dorme.
Altra cosa è, come fa Schopenhauer, dire che  il sogno è "... lo strumento di cui si serve la nostra onniscienza sognante per far giungere possibilmente qualcosa all'ignoranza della nostra veglia."
La razionalità ha bisogno della "onniscienza sognante" quanto il sogno ha bisogno della capacità di distinguere nella luce diurna.


Alleviare il dolore e procrastinare la morte, ogni giorno


Per Galimberti, Freud ha evidenziato la funzione delle religioni: quella delle "illusioni di salvezza". Ma, secondo Galimberti, anche Freud si è inserito in una dimensione salvifica, considerando malattia quella che altri uomini più coraggiosi e veritieri hanno invece valutato come condizione ineliminabile dell'esistenza.

Scrive Galimberti: "Freud riconosce la scoperta di Schopenhauer: <<Probabilmente pochissimi uomini hanno compreso che ammettere l'esistenza di processi psichici inconsci significa compiere un passo denso di conseguenze per la scienza e per la vita. Affrettiamoci comunque ad aggiungere che un tale passo la psicoanalisi non l'ha compiuto per prima. Molti filosofi possono essere citati come precursori, e sopra tutti Schopenhauer, la cui <volontà> inconscia può essere equiparata alle pulsioni psichiche di cui parla la psicoanalisi. Si tratta del resto dello stesso pensatore che, con enfasi indimenticabile, ha anche rammentato agli uomini l'importanza misconosciuta delle loro aspirazioni sessuali.>> (...) A Freud non sfugge l'importanza di Schopenhauer quale precursore della psicoanalisi. Gli sfugge però che la differenza non sta nella dimostrazione dell'intuizione del filosofo con il materiale clinico, bensì nella sua lettura clinica della sofferenza, la quale, proprio in virtù di questa lettura, non è più, come per Schopenhauer, condizione imprescindibile dell'esistenza, ma, ottimisticamente, malattia da cui si può guarire. Il riconoscimento di Freud tende ad abolire una distanza che rimane abissale e ricopre la verità con un'altra maschera: la maschera della guarigione e della salute per quanti non hanno il coraggio del tragico."  

(U. Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli)

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1 - Sono tanti quelli che ho sentito affermare: "Non è stato Freud a scoprire i processi inconsci" ignorando i riconoscimenti fatti dallo stesso Freud e denunciando così la propria sciocca presunzione.

2 - Gli psicoanalisti non sono scemi e non confondono la fatica di vivere, la cosiddetta angoscia esistenziale, con l'angoscia nevrotica, e si rimboccano le maniche solo in questi secondi casi tentando di alleviare le sofferenze provenienti da storie in cui la violenza di altri esseri umani ha travalicato di molto l'impatto inevitabile con l'impermanenza della vita e i suoi intrinseci dolori.

Tuttavia, Galimberti insiste: la psicoanalisi, per il suo stesso approccio curativo, si pone nella scia dell'assetto mentale salvifico delle religioni. Capisco quello che dice, e lo ritengo vero per la psicoanalisi o la psichiatria onnipotenti: non si può medicalizzare la consapevolezza dell'impermanenza, o dell'inevitabilità dell'invecchiamento, o della possibilità di ammalare, o il dolore vitale per la separazione da persone che amiamo.
Ma l'assetto mentale che conosce i limiti entro i quali possiamo vivere e pensare senza svilire la nostra intelligenza con cieche illusioni prevede tuttavia, come lo stesso Galimberti ha evidenziato, "... virtù e conoscenza per alleviare il dolore e procrastinare la morte... in omaggio alla vita che, nel suo limite, per il Greco non è <valle di lacrime> ma bellezza."   
Procrastinare la morte è tipico della medicina fisica, ma non è evento estraneo alla psicoterapia. Non solo: ogni rapporto autentico, sincero, senza droghe di nessun tipo, né fisiche né psichiche, è capace di alleviare il dolore e procrastinare la morte, evitando che la morte psichica avvenga prima di quella fisica.

giovedì 22 maggio 2014

Il grande architetto non parla


"<Tutto ciò che nell'uomo è originario e perciò genuino agisce, come le forze della natura, in modo inconscio. Ciò che è passato attraverso la coscienza è, appunto per ciò, diventato una rappresentazione. Ne discende che la manifestazione di questa coscienza è, in un certo senso, la comunicazione di una rappresentazione. In conformità a ciò tutte le qualità del carattere e dello spirito che reggono alla prova sono  di origine inconscia, e soltanto come tali esse producono un'impressione profonda.>   A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, 1851

(...) Nella rappresentazione si fondono due istanze inconciliabili: la forza della vita, per cui noi siamo, e la visione che noi abbiamo della vita, per cui pensiamo. Il cogito e il sum, che Cartesio aveva collegato con un ergo, si ripropongono, ma non con la chiarezza dell'evidenza, bensì con la drammaticità di un conflitto che viene prima di tutti i conflitti di cui si lamenta il nostro vivere quotidiano. Noi siamo vissuti da una vita che, nella rappresentazione che fa di sé, si mostra incurante delle nostre intenzioni, e al tempo stesso non potremmo vivere se non alimentando giorno dopo giorno propositi e intenzioni che la vita, nel suo cieco e semplice desiderio di vivere, trascura. (...) Freud ha messo in scena questo dramma, il cui testo era già stato descritto dai filosofi che, nel dispiegare la luce diurna della ragione, sapevano da quali tenebre la evocavano e ben si guardavano dal dimenticare la notte."

(U. Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli)

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La parola è inevitabilmente distanza dall'essere. Lo è anche la sua rappresentazione, il modo in cui ogni cosa del mondo si veste e si presenta: ancor di più il suo nome. Una visione del mondo che ha come affermazione costitutiva: In principio era la parola non dovrebbe ingannare nessuno.


Fatti non fummo per vivere in ginocchio


Dunque, i nostri avi greci ci dicono che per vivere senza ricorrere a inganni occorrono "... come dice Dante, riprendendo il mito di Ulisse, virtù e conoscenza. Qui Dante coglie l'essenza della grecità che, per uscire dallo sfondo tragico, non escogita speranze di immortalità perché sarebbe tracotanza (hybris), ma virtù e conoscenza per alleviare il dolore e procrastinare la morte. E questo in omaggio alla vita che, nel suo limite, per il Greco non è <valle di lacrime> ma bellezza."

(U. Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli)

Sono ancora vivi, se noi siamo ancora vivi


"Per il Greco, dunque, dal dolore, visualizzato non nella modalità cristiana dell'espiazione della colpa ma nella modalità tragica dell'ineluttabilità della legge di natura, nascono quelle due forme, non di rassegnazione, ma di resistenza al dolore che sono: il sapere (màthesis) che consente di evitare il male evitabile, e la virtù (areté) che consente, entro certi limiti, di dominare il dolore.
Perché la virtù, qui intesa come forza e coraggio di vivere al di là delle avversità, sia efficace, è necessaria la misura (métron), senza la quale anche la forza e il coraggio di vivere vanno incontro alla sconfitta, perché l'uomo che vuole andare oltre il proprio limite decide anche la sua fine. Quando diviene tracotante la sua forza volge in debolezza, la sua felicità in sciagura. Per questo la virtù chiede all'uomo di essere attento al suo limite, e questa attenzione i Greci la hanno chiamata prudenza, saggezza (phrònesis)."

(U. Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli)

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Li hanno imprigionati in un casolare ai margini della valle di lacrime, i nostri avi, ben legati e imbavagliati, mentre ci facevano il lavaggio del cervello fin da bambini, mettendoci in ginocchio e così tenendoci per tutta la vita, noi valligiani cupi, nenianti, ipnotizzati, terrorizzati, inchiodati - croci, croci, croci, colpe, cuori sanguinanti, madri vergini, madri in lutto, gigli impotenti, angeli, putti puttini e puttoni, santi santini santucci santoni, diavoli zoccoluti coduti cornuti, misteri, mistero, mistero, dogma, dogmi, dogmani, sagrestie - il nostro stesso pensiero ridotto ad una sagrestia, noi tutti violentati nelle nostre intelligenze come lo sono stati fisicamente i tanti ragazzini lasciati nelle mani dei sergenti montanari.
Con sorpresa ho letto il passaggio di Galimberti riportato qui sopra. Con commozione. Eppure ho fatto il liceo classico, ho studiato a lungo, sia nell'ambito scientifico che nell'ambito umanistico, ancora studio, leggo, ascolto, cerco. Ed ecco, mi ritrovo a leggere, a rileggere, capire forse per la prima volta, in questo libro di Galimberti, che ringrazio, quello che hanno capito i nostri avi, i Greci, riscopro il loro sapere comprensibile, umano, pratico, vero, rispettoso, coraggioso, e avverto la violenza terribile che è stata fatta dai potenti e spietati montanari cattolici, i guardiani della valle di lacrime in cui ci hanno tenuti secolo dopo secolo per quasi due millenni.



mercoledì 21 maggio 2014

Uscire dal lager


Non la birra, lager, ma il campo di concentramento e sterminio, delle nostre coscienze, delle nostre menti, della nostra capacità di essere, sentire, pensare. Lo possiamo, lo dobbiamo, a noi stessi.

Socrate torni tra noi


"L'idea giudaico-cristiana, che giustifica la sofferenza in questa vita terrena e transeunte, in vista di quella eterna senza dolore, mette in circolazione una concezione della vita come malattia, da cui un giorno sarà possibile liberarsi... Alla psicoanalisi dobbiamo essere grati per quanto ci ha fatto conoscere in ordine alle dinamiche pulsionali e ai processi di simbolizzazione, ma ciò non toglie che questo sapere, come è nelle intenzioni di ogni sapere, ha in vista un potere, il potere di curare il dolore dell'uomo. In questo modo la psicoanalisi è pienamente inscritta nella visione religiosa della tradizione giudaico-cristiana secondo la quale il dolore non è costitutivo dell'esistenza, ma qualcosa da essa separato, che va estirpato, guarito, seguendo procedure che, solo per il contenuto, differenziano la pratica psicoanalitica dalla pratica religiosa, perché, per la forma, entrambe sono inscritte in quella visione del mondo che concepisce il dolore non come un tratto inscindibile dell'esistenza, ma come una malattia da cui si può e si deve guarire. (...) Per entrambe, infatti, l'uomo deve essere salvato dal dolore, perché il dolore non è una condizione imprescindibile dell'esistenza come pensavano i Greci, ma ha una sua ben identificata causa-colpa da cui è possibile redimersi e, nel linguaggio secolarizzato, guarire. La potenza del sapere che guarisce è dunque la versione secolarizzata della potenza della fede che salva, per cui, in presenza del dolore, occorre affidarsi al sapere come un tempo ci si affidava alla fede. L'esito di questo affidamento è in entrambi i casi la rimozione del dolore come costitutivo dell'esistenza, per cui il dolore non ha più circolazione nella vita quotidiana degli uomini, ma viene relegato in quei luoghi dove la competenza del sapere esercita il suo potere."

(U. Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli)

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Gli psicoanalisti non sono scemi, sanno distiguere tra dolore da curare e dolore esistenziale. Cioè sanno fare quella differenza che lo stesso Galimberti fa in un altro passaggio, quando scrive: "Dall'angoscia nevrotica si può guarire limitatamente ai sintomi con cui questa angoscia si manifesta, ma non in ordine allo sfondo a cui tali sintomi rinviano, che è poi lo sfondo dell'esistenza percepita come assoluta precarietà. Qui la pratica analitica è impotente, mentre la pratica filosofica ha ancora una parola da dire. E la dice inscrivendo la caducità dell'esistenza nell'universale caducità, che non è una malattia da cui si può guarire, perché è la condizione di ogni esistenza che vuol vederci chiaro e non illudersi con cieche speranze."
La teoria e la pratica psicoanalitica che perde il senso dei propri limiti, e pretende di spiegare e curare il dolore esistenziale, questa psicoanalisi onnipotente che medicalizza la vita, sì, è inscrivibile nella tradizione religiosa giudaico-cristiana.
Infatti, il primo sfondo a cui rinviano i sintomi non è, come scrive Galimberti, "lo sfondo dell'esistenza percepita come assoluta precarietà", bensì quello di ambienti familiari in cui non c'è stata sufficiente cura o peggio, con danni più o meno gravi che chiedono ascolto, partecipazione, cura, sollievo, e se possibile superamento, guarigione.
Per la psicoanalisi onnipotente, o la psichiatria onnipotente, o la medicina onnipotente, vale in pieno l'analisi di Galimberti. Queste forme di sapere-potere religioso, falsarie d'onnipotenza, certamente non hanno nulla a che vedere con Socrate.

La valle di lacrime e i montanari


Nella visione cristiana, scrive Galimberti, il dolore è pegno della salvezza in un'altra vita oltre questa terrena. Mentre per i Greci la vita è crudeltà e bellezza, e il dolore che comporta va sopportato con dignità (substine et abstine, sopporta e astieniti, dicevano gli Stoici),  per i cristiani questa vita diventa valle di lacrime nella quale il dolore va amato in quanto più si soffre maggiore è la garanzia del premio in un'altra futura vita ultraterrena.

"E così, all'etica della forza e della moderazione, all'etica della dignità dell'uomo che deve saper reggere il dolore, la concezione cristiana chiede di amare il dolore perché il tormento del presente è la caparra del futuro. Francesco di Sales, che coerentemente con la visione cristiana dell'esistenza fonda questa pedagogia del dolore, è consapevole della distanza che separa il cristianesimo dalla grecità, e in polemica con il substine et abstine stoico, dichiara:

<La dottrina cristiana è tutta stabilita su questi principi: l'abnegazione di sé che è molto superiore all'astenersi dai piaceri; portare la croce, che è cosa assai più sublime del sopportarla... Il vero amore, più che nel rinnegamento di sé e con l'azione, si dimostra nel patire.>"

(U. Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli)

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Valle di lacrime, ma c'è chi sta in alto, in montagna - in villa, non in valle: a questi montanari astuti fa assai comodo che i valligiani pensino che più soffrono più saranno felici in un'altra vita.


martedì 20 maggio 2014

L'invisibile sparizione quotidiana


Io vedo una realtà che non gradisco affatto, e rapidamente faccio un'operazione mentale che la rende invisibile: quella realtà sparisce nella mia mente. Nessun problema. Se questa operazione mentale, rapida come sanno essere rapide le operazioni mentali inconsapevoli, non riesce per un qualsiasi motivo (o mio o della realtà che per sua quantità o qualità si oppone alla sparizione) allora posso ricorrere a un'altra operazione mentale, che ottiene l'effetto di congelare l'esistenza della realtà sgradita, privarla dei suoi attributi sgradevoli, privarla di ogni suo attributo, ogni sua caratteristica propria. La "cosa" c'è, ma è come se non ci fosse. La ho uccisa per quello che è, ne è rimasta una parvenza, un cadavere inerte. Ne posso fare quello che voglio, pensarne e dire quello che mi pare.

Queste operazioni mentali micidiali - vengono prima e durante l'indifferenza quotidiana o l'indifferenza che precede e accompagna gli atti peggiori dell'essere umano - gran parte della psicoanalisi le ha chiamate "meccanismi di difesa" - come fossimo macchine, automi, e come se fossero difesa: ha fatto nei confronti di queste operazioni mentali quello che queste operazioni mentali ottengono in seconda battuta - se non un annullamento di esistenza, uno stravolgimento di ciò che è.

Modi di vivere senza false speranze


"Per la cultura greca il dolore non è la conseguenza di una colpa, ma è il costitutivo dell'esistenza, di cui bisogna accogliere per intero la caducità, senza illudersi con speranze ultraterrene o con ipotesi di salvezza da colpe originarie. Accolta la caducità dell'esistenza, occorre poi imparare a vivere tutta l'espansione della vita e tutto il suo contrarsi, perché questa è la condizione del mortale che nessuna narrazione può modificare. La pratica filosofica è inscritta in tale visione del mondo, e perciò non conosce speranze salvifiche e concomitanti disperazioni, ma solo la temperata saggezza che il dolore lo si può reggere e, entro certi limiti, dominare."

(U. Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli)

La proposta della cultura greca presuppone che noi esseri umani siamo attrezzati per sostenere il dolore che la vita può comportare. "Il dolore lo si può reggere e, entro certi limiti, dominare".
Non c'è quindi bisogno di ricorrere alla "cieche speranze",  non c'è bisogno di svilire o annullare la nostra intelligenza che sa ben distinguere tra realtà e illusione, tra verità e bugia.
Accolta l'impermanenza - tutto passa - possiamo "vivere tutta l'espansione della vita e tutto il suo contrarsi".

Per il buddhismo, diversamente, accolta l'impermanenza senza ricorrere a false speranze, dobbiamo imparare a metterci in una posizione di sicurezza, di distacco da ogni desiderio: se non facciamo questa operazione psichica non riusciremo a sopportare, quando ce ne sarà inevitabilmente bisogno, il dolore che deriva da desideri irrealizzabili come quello di non invecchiare, di non ammalare, di non morire, di non essere mai separati da chi amiamo.





Genzano, olmata


lunedì 19 maggio 2014

La caducità dell'esistenza


"Dall'angoscia nevrotica si può guarire limitatamente ai sintomi con cui questa angoscia si manifesta, ma non in ordine allo sfondo a cui tali sintomi rinviano, che è poi lo sfondo dell'esistenza percepita come assoluta precarietà. Qui la pratica analitica è impotente, mentre la pratica filosofica ha ancora una parola da dire. E la dice inscrivendo la caducità dell'esistenza nell'universale caducità, che non è una malattia da cui si può guarire, perché è la condizione di ogni esistenza che vuol vederci chiaro e non illudersi con cieche speranze."

(U. Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli 2008)


La caducità non è una malattia. Ma è una delle cause del dolore umano, come Buddha, il primo grande analista di Psiche, era arrivato a capire tanto tempo fa.  E Buddha, che aveva come fine quello di trovare un modo per superare il dolore insito nel vivere umano, propose una via, un metodo, senza far ricorso a evitamenti e negazioni, né ad atti di fede.

Senza colpa


"La pratica analitica coglie l'angoscia nevrotica che ha la sua causa-colpa (in greco le due parole sono rese dallo stesso termine aitìa) nei trascorsi del sofferente, nel suo passato, nella sua biografia; la pratica filosofica coglie l'angoscia esistenziale che alle sue spalle non ha né causa né colpa, perché nasce dall'anticipazione della morte futura, di cui la sofferenza, come riduzione delle possibilità di vita, è segno e anticipazione."


(U. Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli 2008)

Una causa c'è: la consapevolezza della caducità, quindi la caducità.

domenica 18 maggio 2014

Farmaci con gravi effetti collaterali


CORO: Nei doni concessi non sei magari andato oltre?
PROMETEO: Sì, ho impedito agli uomini di vedere la loro sorte mortale.
CORO: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia?
PROMETEO: Ho posto in loro cieche speranze.

(Eschilo, Prometeo incatenato)

Cara natura, avrei delle domande da farti


sabato 17 maggio 2014

Peccato originale


Il mito del peccato originale ha come realtà vissuta la necessità di nutrirsi di altra vita per tenersi in vita? Solo le piante capaci di fotosintesi sono al di fuori di questa necessità: prendono dalla terra la sua acqua, i suoi sali minerali, la sua aria, e usando l'energia della luce trasformano la materia inorganica in materia organica. Tutte le altre forme di vita, incapaci di fare quello che fanno le piante, devono necessariamente assumere materia organica di vegetali o di animali. 

Senza difese immunitarie, moriremmo: ogni momento della nostra vita è, da parte del corpo, affermazione e difesa della sua vita contro altre forme di vita. Anche il corpo del più convinto e puro dei nonviolenti non eviterà di difendersi dalle invasioni di altre forme di vita. Questa è la nostra realtà difensiva corporea
Per il mantenimento della vita questa continua attività difensiva corporea non chiede nessun nostro movimento, nessuna conoscenza per dirigersi. E' necessaria, ma non sufficiente: per vivere ci vuole anche altro, una nostra attività consapevole, un nostro muoverci, cercare, progettare ed eseguire, spinti dal bisogno istintivo primario di nutrirci.

La fame e la sete ci spingono a muoverci, a cercare, a sapere cosa e dove cercare, fin da quando, appena nati, abbiamo girato la testa alla ricerca del seno materno. Bevendo e mangiando, ogni momento della nostra vita è stato ed è vissuto mediante l'assunzione di materia inorganica ed organica che proviene da altra vita o è essa stessa altra vita

Sfruttamento, l'uso dei prodotti e dei frutti di altri viventi animali o vegetali, e uccisione di altra vita, gli animali o i vegetali stessi come cibo, sono la nostra condizione biologica di base: questa non è invisibile come la realtà difensiva del sistema immunitario - è da sempre la nostra percepibile realtà d'esistenza. Ed ha certamente dei correlati psichici, individuali e collettivi

Il fatto che per vivere io debba necessariamente sfruttare e/o uccidere altre forme di vita ha certamente i suoi effetti sulla mia vita psichica inconscia e, quando arrivo ad accorgermene, cosciente - fosse anche, almeno a livello superficiale, una rapida alzata di spalle o una indifferenza razionalmente coltivata. Ed essendo una realtà condivisa, ha certamente prodotto dei miti.


 

Dudù e il Grande Pecoraio


Il Grande Pecoraio s'è divertito, ha fatto per tanti anni quello che ha voluto. Ha trattato un intero popolo, noi Italiani, come pecore. Non avrebbe potuto, se non ci fosse stato il grande inganno del Partito Comunista Italiano e dei suoi derivati successivi.
Grillo ha detto una sciocchezza. Ma ha indicato qualcosa. Dudù somiglia ad una pecora. Siamo stati, siamo, quasi tutti noi, come quel cane, nelle mani del Grande Pecoraio e dei falsi Lupi Rossi.


Vivisezione: ce l'hanno fatta e non ce ne siamo accorti?


Il corpo no, non ce lo hanno vivisezionato - non abbiamo cicatrici - qualcuno ce l'ha: ferite sul lavoro, o malattie da esposizione ad agenti lesivi, per esempio, sul lavoro e ovunque - se non sezionati, sfruttati, vivisfruttati, sì, tanti, tantissimi - se non sezionati, studiati, in vivo, strettamente controllati: vivistudiati, sì, quasi tutti - i corpi dei più non recano segni di vivisezione, è un fatto, ma le nostre menti, i nostri affetti, la nostra gioia di vivere, la nostra capacità di vedere, capire, pensare, amare e odiare? - gli studi e le sperimentazioni in vivo che hanno continuamente fatto su di noi, sulle nostre tendenze a comprare o a votare, sui nostri modi di vivere, sentire, pensare, desiderare, sono una forma di vivisezione non fisica, sono vivisezione psichica - studi in vivo che sono serviti per distrarci, addormentarci, ricattarci, disarmarci fino alla rassegnazione dolorosamente muta di tanti o alla catatonia affettiva di chi non ha retto più - ferite e morti che non si vedono, malattie da esposizione ad agenti lesivi di cui difficilmente abbiamo consapevolezza.

Svegliarsi e restare svegli


venerdì 16 maggio 2014

La peste mediatica dell'ultimo ventennio



"Non possiamo distogliere lo sguardo dai mali profondi dell’Italia, quelli che continuano a corrodere la società. Abbiamo appena assistito all’accettazione strutturale della corruzione, visto che condannati e inquisiti non sono stati non dico almeno biasimati, ma dotati di un paracadute politico con candidature alle elezioni europee e locali.
Vi è una morale da trarre da questa vicenda?
Ve ne sono almeno tre.
La prima riguarda il significato assunto dalle leggi in queste materie;
la seconda evoca l’onore perduto della politica;
la terza richiama l’impossibile ricostruzione di un’etica civile.

In tutti questi anni sono stati citati infiniti casi di politici in vista, spesso con grandi responsabilità pubbliche, che si sono prontamente dimessi per comportamenti ritenuti riprovevoli, senza che vi fosse alcuna legge che lo prevedesse. Fuori d’Italia, però. (...)
Dalle nostre parti, perduta da gran tempo la speranza di sane reazioni dettate dalla responsabilità politica e dalla moralità pubblica, si è stati obbligati, tra mille resistenze, a scrivere qualche norma per combattere almeno i casi più scandalosi. Ma questa scelta ha prodotto un effetto paradossale. Invece di considerare le nuove leggi come il segno di un cambiamento del giudizio collettivo sui doveri di chi esercita responsabilità pubbliche, si è cercato in ogni modo di limitarne l’applicazione; e, soprattutto, si è concluso che ormai solo i comportamenti lì previsti possano legittimare reazioni di biasimo. Vengono così derubricate, e collocate nell’area della irrilevanza, le “disattenzioni” nell’esercizio delle proprie funzioni, le ambigue reti di relazioni personali, le convenienze dirette e indirette procurate dal ruolo ricoperto, le dichiarazioni violente e razziste, e via dicendo.

È tornata così, in forme nuove, la consolidata e interessata confusione tra responsabilità penale e responsabilità politica. Quest’ultima è stata praticamente azzerata. Ogni invito a correttezza e senso di responsabilità, ogni richiesta di dimissioni occasionata da azioni socialmente censurabili e sicuramente fonte di discredito per la politica, vengono respinti con protervia: “non è questione penalmente rilevante”. Una formula frutto di miserabile astuzia, che irresistibilmente richiama l’amara ironia di Ennio Flaiano, all’indomani di uno degli scandali del passato, riguardante i terreni sui quali venne poi costruito l’aeroporto di Fiumicino: «scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: “Ah” dice “ma non sono in triplice copia!”».

In tempi di dilaganti spinte verso revisioni costituzionali, si deve malinconicamente concludere che una riforma è già stata realizzata con la pratica cancellazione dell’articolo 54 della Costituzione. Nella prima parte di questo articolo si dice qualcosa che può sembrare scontato: “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Costituzione e di osservarne la Costituzione e le leggi”.
Ma leggiamo le parole successive.
“I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”.
Il bel linguaggio della Costituzione non dovrebbe lasciare dubbi. Chi svolge funzioni pubbliche, dunque i politici in primo luogo, non possono trincerarsi dietro l’affermazione di aver rispettato la legge penale, dunque di non aver commesso alcun reato. A tutti loro è imposto un “dovere” costituzionale ulteriore, indicato con parole forti, non equivoche - disciplina e onore.
Nel momento in cui questo dovere non viene rispettato, i politici perdono l’onore, e con essi perde l’onore la politica. Di questo nessuno si preoccupa più, anzi ogni oligarchia, corporazione, grumo d’interesse fa quadrato intorno ai suoi “disonorati”, alza la voce e così certifica la concreta cancellazione di quella norma della Costituzione.
Se così fan tutti, perché meravigliarsi se in una riunione sindacale della polizia si applaudono i condannati e se rimangono senza eco i richiami all’onore provenenti dalla moglie del commissario Raciti assassinato da un ultra calcistico?
Ma il riferimento all’onore sembra che abbia diritto di cittadinanza solo in questo ambito. L’Italia, infatti, continua a essere percorsa da condannati illustrissimi continuamente applauditi, che stipulano patti sul futuro del paese.

In tempi di proclamata volontà di “innovazione” proprio di questo si dovrebbe tenere grandissimo conto. Il vuoto della politica, e la sfiducia che così si alimenta, trovano le loro radici profonde proprio nella scomparsa di un’etica pubblica. E invece cadono nell’indifferenza politica quei veri bollettini di guerra che, da anni ormai, sono divenute le cronache di giornali e televisioni, che registrano impietosamente, ma purtroppo anche inutilmente, vicende corruttive grandi, medie e piccole, testimonianza eloquente della devastazione sociale. Il ceto politico distoglie lo sguardo da questa realtà scomoda. E nessun richiamo sembra in grado di scuoterlo.
Quando un bel pezzo dell’attuale classe dirigente è convenuta in pompa magna ad una udienza papale, ha dovuto ascoltare una dura reprimenda del Papa proprio sul tema della moralità pubblica. Ma pare che l’unica sua reazione sia stata quella dello sconcerto di fronte alla mancanza di ogni cordialità da parte del Pontefice alla fine di quell’incontro. Così, anche questa vicenda è stata rapidamente archiviata, e tutti sono tornati alle usate abitudini, senza dare il pur minimo segno di qualche intenzione di voler dare un’occhiata al dimenticato articolo 54. Ma una politica che ha dimenticato l’onore, ritenuto forse un inaccettabile segno del moralismo dei costituenti, quale prospettiva può offrire per una azione concreta di ricostruzione dell’etica civile?"

Stefano Rodotà, Repubblica, 7 maggio 2014

giovedì 15 maggio 2014

La morale cristiana e gli animali


"La vera morale è offesa dall'affermazione kantiana che gli esseri privi di ragione (cioè gli animali) siano cose e quindi debbano essere trattati soltanto come mezzi.
Dice "L'uomo non può avere alcun dovere verso esseri che non siano l'uomo", e poi "Il trattamento crudele degli animali è contrario al dovere dell'uomo verso se stesso, perché smorza nell'uomo la compassione per le loro sofferenze, indebolendo così una naturale disposizione molto utile per la moralità nei rapporti con altri uomini."
Dunque, bisogna avere pietà per gli animali soltanto per esercizio: essi sono, per così dire, il fantasma patologico per l'esercizio della pietà verso gli uomini.
Qui si vede un'altra volta come questa morale kantiana, che come abbiamo dimostrato è soltanto una morale teologica travestita, dipenda a rigore da quella biblica. Siccome infatti (e ne parleremo anche più avanti) la morale cristiana non prende in considerazione gli animali, essi sono messi subito al bando filosoficamente da Kant, ridotti a cose, soltanto mezzi per qualsiasi fine, come, poniamo, vivisezioni, cacce a cavallo, corride, gare di corsa, fustigazioni fino a morte davanti al carro di pietre inamovibile, o altro.
Puh, che morale da paria, da ciandàla, la quale misconosce l'essenza eterna che esiste in tutto ciò che ha vita e con insondabile significato risplende da tutti gli occhi che vedono la luce del sole!"

(A. Schopenhauer, Il fondamento della morale)

Abraham Sutzkever


"... Avrom Sutzkever sopravvisse alla fucilazione. Ferito, cadde nella fossa assieme ai suoi compagni morti e fu coperto di terra, ma resistette.
Resistette la sua ragione e fu più forte della paura e del dolore. Resistette la sua intelligenza e fu più forte dell'ira. Resistette il suo amore per la vita e in quello trovò le energie necessarie per uscire dalla morte, vivere clandestinamente nel ghetto e organizzare una colonna di combattenti che, capeggiati dal poeta, iniziarono la resistenza armata nei paesi baltici.
... Non ho mai conosciuto il poeta ebreo Avrom Sutzkever, ma mi ha insegnato che noi sognatori dobbiamo diventare soldati. So che sta per compiere ottantotto anni e sicuramente detesta che gli venga ricordata la sua venerabile età perché i vecchi muoiono in piena gioventù / e i nonni sono solo bambini mascherati. Non lo ho mai conosciuto, ma i suoi versi e il suo esempio mi accompagnano come il pane e il vino."

(Luis Sepùlveda, Le rose di Atacama)

mercoledì 14 maggio 2014

Le due metà


"Ogni realtà, ogni presente, consiste di due metà, l'oggetto e il soggetto. Se la metà oggettiva resta del tutto identica ma cambia quella soggettiva, o viceversa, la realtà o il presente non sono più gli stessi. Inoltre, nel caso di una metà soggettiva ottusa e cattiva, la metà oggettiva migliore e più bella dà pur sempre solo una cattiva realtà, un cattivo presente, proprio come un bel paesaggio con il brutto tempo, oppure catturato in una camera oscura scadente su una lastra irregolare.
La metà oggettiva è nelle mani del destino, ed è mutevole; quella soggettiva siamo noi stessi, ed è essenzialmente immutabile. Ne risulta chiaramente quanto la nostra felicità dipenda da ciò che siamo, dalla nostra individualità, mentre per lo più si tiene conto solo del nostro destino e di ciò che abbiamo.  Il destino può diventare migliore e la moderazione non pretende molto da esso, ma un babbeo rimane un babbeo e un ottuso gaglioffo rimane un ottuso gaglioffo per tutta l'eternità, fosse egli in paradiso circondato da urì. <La personalità è la felicità più alta.> (Il divano occidentale-orientale, Libro di Suleika)"

(Schopenhauer, Massime, 50)

martedì 13 maggio 2014

Se vuoi dominare, diventa un computer


"<Se vuoi assoggettare ogni cosa, assoggettati alla ragione.> (Seneca, Lettere a Lucilio)"

(Schopenhauer, Massima n. 10)

Nella Massima n. 21 Schopenhauer riprende la citazione di Seneca, inserendola in un ragionamento con cui arriva alla conclusione che, essendo la vita costellata di costrizioni esterne ed interne, è meglio sapersi controllare, porre a se stessi dei limiti, agire con intelligenza sulle autocostrizioni piuttosto che correre il rischio di esporsi a cieche costrizioni esterne. "L'autocostrizione è pur sempre sotto il nostro controllo, e nel caso estremo, oppure quando tocca la parte più sensibile della nostra natura, possiamo esimerci dal metterla in atto; viceversa, la costrizione dall'esterno è senza riguardo e senza clemenza, ed è spietata: per questo è meglio prevenirla mediante l'altra."

Quel "Se vuoi assoggettare ogni cosa, assoggettati alla ragione" (Subjice te rationi si subjicere tibi vis omnia) di Seneca ha però un respiro più ampio, e tremendo. Se vuoi dominare il mondo, lasciati dominare dalla ragione. Se vuoi dominare, diventa fredda razionalità, pensiero tecnico.


lunedì 12 maggio 2014

Punitori di se stessi


"Una volta che è capitata una sventura e non ci si può fare più nulla, non concedersi nemmeno il pensiero che le cose potrebbero andare diversamente. Altrimenti si è un eautontimorumenos (punitore di se stesso, Terenzio). Ma quest'altra possibilità inversa, tramite l'autopunizione, ha l'utilità di renderci più prudenti per la prossima volta."

(Schopenhauer, Massime)

La ripetizione nell'immaginazione di una situazione traumatica vissuta in passato senza che questa ripetizione porti al suo superamento, alla sua elaborazione, è ossessività masochistica, diceva Freud, manifestazione dell'istinto di morte. Insomma, autodistruttività.
E' successo, non posso farci niente.
Ci sarebbe da distinguere tra due situazioni: non potevo e non posso farci niente, oppure: potevo fare qualcosa, allora, sul momento, e non l'ho fatto, e ora non posso farci niente.
Anche sul non poter far niente oggi: non posso fare niente perché ormai la cosa è avvenuta, è andata così ed è finita malamente, allora; oppure: non posso farci niente perché ormai la situazione, da allora, è cambiata negativamente e non posso più tornare a come era precedentemente.

Mettiamo che mi è accaduta qualcosa e avrei potuto reagire diversamente da come ho reagito, e dopo, oggi, ci ripenso e ogni volta che ci ripenso mi sento male, infastidito assai dalla mia reazione di allora: so che sono capace di reagire diversamente da come ho reagito, sta nelle cose, ma non l'ho fatto, mi sono fatto sorprendere come uno sciocco sprovveduto. Se in qualche modo ho subìto una violenza, la ho permessa. Chi mi ha fatto violenza non è più presente, ma io che la ho permessa sì, sono presente.
Ora, se mi fermo a questo, rischio di entrare nell'ossessività autodistruttiva, divento un "punitore di me stesso" e la punizione può debordare di misura rispetto alla gravità del mio comportamento - per esempio, posso farne una nascosta malattia, una ferita pericolosa.
Ma se prendo atto che la mia reazione non è stata all'altezza delle mie reali capacità, posso analizzare le caratteristiche di quella situazione, posso scoprirne aspetti che imparo a temere ed evitare. E posso confermare a me stesso la necessità di star sveglio, di non andare in giro con automatismi da falso Sé.


 

Al gatto morto per strada, ucciso da qualcuno che guidava una macchina


Si dice: ucciso da una macchina - da qualche macchina che passava. Come se si prendesse atto fiducioso del fatto che non v'è stata intenzione di chi guidava di uccidere il gatto che attraversava la strada, per cui è la macchina che lo ha ucciso. Di fatto, comunque, lo ha ucciso chi guidava la macchina, anche se senza volerlo. Come chi stesse sparando davanti a sé, e improvvisamente il gatto si fosse messo sulla sua linea di tiro.