giovedì 29 maggio 2014

Quando diciamo "io"

Per Nietzsche, scrive Galimberti, il soggetto, l'io, non è un dato, è una interpretazione del nostro mondo interiore: "io" è una rappresentazione, una immagine messa sullo sfondo delle sensazioni che provengono dal nostro corpo.

"Pensare il soggetto infatti significa per Nietzsche conferire sostanzialità a un fascio di sensazioni che abbiamo raggruppato sotto la categoria dell'eguaglianza, per cui: <Soggetto è la finzione derivante dall'immaginare che molti stati uguali in noi siano opera di un solo sostrato, ma siamo noi che abbiamo creato l'uguaglianza di questi stati; il dato di fatto è il nostro farli uguali e sistemarli, non l'uguaglianza, che anzi è da rifiutare.> (Nietzsche, Frammenti postumi)

Il soggetto, così come la coscienza, l'Io, è una categoria voluta, creduta. E come ogni credenza, anche questa può essere una condizione di vita, ma ciò non la esonera dall'esser falsa. Del resto, si domanda Nietzsche, quale bisogno ha portato l'uomo a rappresentarsi il soggetto se non il desiderio di impadronirsi della realtà, onde evitare la sua imprevedibilità?"

(U. Galimberti, La casa di Psiche)

-----------------------------------------------

"... la finzione derivante dall'immaginare che molti stati uguali in noi siano opera di un solo sostrato..." ma questa uguaglianza non è vera, è una interpretazione falsa usata per difendere una rigida identità. Per cui, quando penso e dico "io", presuppongo che vi sia una "cosa" in me che chiamo "io" e che è sempre la stessa - sempre uguale a se stessa.
Così non è, dice Nietzsche, e non solo lui: l'inesistenza dell'Io è una delle indicazioni di base del pensiero buddhista, come è stata indicazione anche di altri filosofi occidentali - per esempio Hume.

Capisco. Però, quando leggo dell'inesistenza dell'Io, ho sempre una perplessità, una resistenza: sarà il mio "io" che si ribella, che non vuole scendere dal suo trono.
Per esempio, mi chiedo: se sento e penso che "molti stati simili in noi siano opera di un solo sostrato", e presuppongo che vi sia una funzione in me, un modo di avere esperienza, che chiamo "io" e lo vivo e lo penso nel tempo non uguale a se stesso, bensì simile, è una finzione, una falsità?

Agli effetti pratici, comunque, mi sembra certamente preziosa questa indicazione, implicita nel pensiero dell'inesistenza dell'Io: stai attento a quando pensi e dici "io", pensa a te stesso come un vivente, che va di esperienza in esperienza, che cambia, e anche se puoi dire "io", anche se mantieni una riconoscibilità, una somiglianza più o meno forte con te stesso di dieci minuti fa o dieci anni fa, evita di incastrarti in una rigidità di uguaglianza - questa sì, sarebbe, è, una finzione, una falsità.


Nessun commento:

Posta un commento