giovedì 31 ottobre 2013

C'è nessuno?


Vita mea


"Mors tua vita mea (lat. «la tua morte è la mia vita»). – Sentenza applicata a varî casi particolari per significare che il danno di una persona è spesso un vantaggio per un’altra, o enunciata in senso più ampio, con allusione alle dure leggi della vita e alla lotta per l’esistenza."
(Treccani.it)

"La locuzione latina Mors tua vita mea, di origine medioevale, significa morte tua, vita mia (o: la tua morte (è) la mia vita). Al di là del tono drammatico del senso letterale, tale espressione si usa quando all'interno di una competizione o nel tentativo di raggiungere un traguardo ci può essere un solo vincitore: il detto indica cioè che il fallimento di uno costituisca requisito indispensabile per il successo di un altro.Viene comunemente usata per descrivere efficacemente un comportamento connotato da caratteri opportunistici."
(Wikipedia)

Tra gli esseri umani dovrebbe valere il Vita tua vita mea.
E' possibile. E' possibile certamente molto più di quanto è.
Quanto è lo sappiamo più o meno tutti: come scriveva Schopenhauer, l'egoismo domina il mondo, ed è un egoismo che danneggia con indifferenza gli altri, o, nei casi migliori, si fa i fatti propri senza danneggiare gli altri per quanto è possibile al farsi i fatti propri - se posso, non ti faccio del male: condizione certamente auspicabile rispetto al perverso piacere della sofferenza altrui.

Poi, lui diceva che è possibile altro, diverso dall'egoismo, ed è possibile in quanto sta già nella realtà attuale e storica, cioè è cosa degli uomini da sempre e in ogni luogo, è un fatto: la partecipazione immediata, istintiva, alle vicissitudini dell'altro essere umano, in particolare quando l'altro sta soffrendo. E questa possibilità di "compassione" - non so il termine tedesco che usava - è strettamente connessa allo sguardo e al comportamento che un essere umano ha verso i "fratelli animali" - se sei indifferente alla sofferenza degli animali, sei anche indifferente a quella di altri esseri umani - sei, infine, incapace di amore, poiché egli sosteneva che qualsiasi forma di amore ha come radice proprio la "compassione" - scriveva che ogni amore è anche "compassione", partecipazione immediata, non ragionata, a ciò che accade all'altro, oppure non è amore.

Ora, avviene che tutti gli umani onnivori, che uccidono e mangiano sia piante che animali, per questo aspetto rientrano, oggettivamente, nel Mors tua vita mea - possono essere le anime belle più belle del mondo, ma se uccidono animali e piante, e non c'è bisogno che lo facciano direttamente, hanno alla vita il cinturone con un'arma letale che si chiama Mors tua vita mea, e la usano quasi sempre prima di sedersi a tavola.

E' la condizione di base degli umani, l'alimentazione onnivora, e in questo sta probabilmente la realtà vissuta che sostiene il mito del peccato originale, un mito creato da adulti che questa realtà, del Mors tua vita mea alimentare, avevano avuto modo di vivere quotidianamente.

Dal punto di vista alimentare, è possibile all'essere umano il Vita tua vita mea?
Se consideriamo vita quella delle piante - lo è certamente dal punto di vista biologico - allora si deve concludere che no, all'essere umano non è possibile vivere senza che interrompa altra vita e se ne alimenti. Non è possibile a nessun animale - e siamo animali, biologicamente.




martedì 29 ottobre 2013

613


"Il melograno è, nella simbologia ebraica, simbolo di onestà e correttezza, dato che il suo frutto conterrebbe 613 semi, che come altrettante perle sono le 613 prescrizioni scritte nella Torah, (365 divieti e 248 obblighi) osservando le quali si ha certezza di tenere un comportamento saggio ed equo. In realtà i semi della melagrana sono in numero variabile (di certo circa 600), ma il frutto con i suoi semi ricorda quel numero, che, come tanti altri, ha riferimenti precisi nella numerologia ebraica."

(Wikipedia)

lunedì 28 ottobre 2013

Il frutto di Eva


Alcuni studiosi ritengono che fosse una melagrana, non una mela. Mela in latino si dice malum, che significa anche male, per cui nel Medioevo cominciarono a rappresentare il frutto offerto da Eva ad Adamo come una mela, e quel gesto d'offerta di Eva s'impregnava di male già nella parola, nel nome del frutto. Nelle scritture originali era solo nominato un frutto, senza specificare: era il frutto di quell'albero, e quello era l'albero della conoscenza del bene e del male.
Ma dico: se uno addenta il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, al primo morso dovrebbe subito sapere se è bene o male che lo stia mangiando, no? Non è mica l'albero del dubbio. O dell'ignoranza.

Alcuni dicono solo: albero della conoscenza, più in generale. Allora, mordere quel frutto farebbe diventare consapevoli del fatto che lo si sta mordendo. Cioè che per vivere Adamo ed Eva dovevano sfruttare forme di vita come l'albero o mangiare tutta la pianta radici comprese. Se è questa, la realtà sulla quale il dio biblico non voleva che gli esseri umani aprissero gli occhi - è proprio l'apertura degli occhi, nelle scritture, che il serpente tentatore pensava fosse ostacolata - allora si intuisce anche che la realtà che si voleva negare, e possibilmente far sparire anche come immagine, era molto più dura, difficile, di quella dello sfruttamento o della uccisione di forme di vita vegetale.

giovedì 24 ottobre 2013

Almeno viviamola bene, la nostra vita.



Il mito del peccato originale, il sentimento di colpa d'ogni essere vivente, potrebbe avere come realtà vissuta la necessità di nutrirsi di altra vita per tenersi in vita.
Solo le piante capaci di fotosintesi sono al di fuori di questa necessità: prendono dalla terra la sua acqua, i suoi sali minerali, la sua aria, e usando l'energia della luce trasformano la materia inorganica in materia organica.
Tutte le altre forme di vita, incapaci di fare quello che fanno le piante, devono necessariamente assumere materia organica di vegetali o di animali. Tranne le piante, inevitabilmente la vita mangia vita. Non solo: nel far questo, ogni individuo inevitabilmente prende per sé ciò che potrebbe avere un altro, o altri.

Senza difese immunitarie, moriremmo: ogni momento della nostra vita è, da parte del corpo, affermazione e difesa della sua vita contro altre forme di vita che ci farebbero ammalare e potrebbero ucciderci se il nostro corpo non fosse capace di riconoscerle, neutralizzarle o ucciderle. Anche il corpo del più convinto e puro dei nonviolenti non eviterà di difendersi dalle invasioni di altre forme di vita microscopiche, e se lo facesse sarebbe la sua malattia o la sua morte.
Questa è la nostra realtà difensiva corporea. Forse non si traduce in una qualche percezione psichica, essendo processi inavvertibili e la conoscenza della vita microscopica un sapere che l'uomo ha da poco tempo. Per vivere, questa resistenza difensiva corporea che non chiede nessun nostro movimento, nessuna conoscenza per dirigersi, è necessaria ma non sufficiente.

La fame e la sete ci spingono a muoverci, a cercare, a sapere cosa e dove cercare, fin da quando, appena nati, abbiamo girato la testa alla ricerca del seno materno. Bevendo e mangiando, ogni momento della nostra vita animale è stato ed è vissuto con la materia e l'energia che proviene da altra vita. Questo ha comportato e comporta non solo lo sfruttamento, l'uso del frutto di un'altra vita come cibo, ma anche l'uccisione di altra vita, gli animali o i vegetali stessi come cibo.  
Gli umani lo sanno da sempre, questo fatto, questa condizione di inevitabile necessità. Questa realtà vissuta più o meno consapevolmente può essersi trasformata in realtà psichica di sentimento di colpa, e in mito - il peccato originale.
 


Allegro adagio


Fuori classe


Va! Anch'io.


mercoledì 23 ottobre 2013

La cosa del peccato originale


Leggevo che nella catena alimentare per preda non si intende solo l'animale, ma anche la pianta. Non avevo mai pensato alle piante come prede.
Quindi, vista così la cosa, solo le piante capaci di fotosintesi sono vita che per vivere non ha bisogno di nutrirsi di altra vita. 
Sarà questa l'origine del mito del peccato originale?


Lo stotting delle gazzelle



Quando le  gazzelle si accorgono del pericolo imminente di un predatore in avvicinamento, cominciano a correre lentamente compiendo ripetuti salti quasi verticali, sollevando contemporaneamente da terra i quattro piedi. Questo comportamento, assunto in vista di un predatore ma a volte anche per puro gioco, per allenamento, viene chiamato stotting.
L'effetto ottenuto sul predatore è che questo spesso rinuncia all'attacco, come se lo stotting avesse la funzione di comunicargli che è stato visto, che la gazzella è in ottime condizioni fisiche, e che è meglio rinunci all'attacco se non vuole disperdere troppe energie e forse inutilmente.
Per maggior sicurezza, comunque, alcune gazzelle di non ricordo quale regione dell'Africa si sono specializzate in uno stotting sicuramente efficace: al quarto o quinto salto si trasformano in elefanti adulti piuttosto nervosi, poi, quando il predatore si è allontanato con la coda tra le gambe, tornano ad essere miti gazzelle.

A volte tutto è così, chiaro


martedì 22 ottobre 2013

Un uomo che abbia bisogno di un falcone



Il giovane Federigo degli Alberighi, di nobilissima famiglia fiorentina,
bravo nelle armi e ammirato da tutti per la sua cortesia, si era
invaghito di una gentile dama ritenuta una delle più belle e leggiadre
della città. Per farsi apprezzare da lei, partecipava a tornei e ad
altri esercizi cavallereschi, organizzava feste e si vestiva riccamente,
spendendo senza ritegno. La signora, di nome Giovanna, onesta
quanto era bella, pareva non accorgersi di quel che faceva il giovane
per mettersi in vista e acquistar merito ai suoi occhi. 
Federigo, non avendo altra maniera per trovar rimedio alla sua passione,
finì col dilapidare il suo patrimonio, pur senza trovarsi ad aver
fatto alcun progresso nella considerazione della dama.
Non gli era rimasto, nella rovina in cui era caduto, che un suo poderetto
del quale si ridusse a vivere poveramente, portandosi dietro
soltanto un falcone, che aveva carissimo e che tutti gl’invidiavano,
perché era il migliore del mondo.
In quel luogo solitario, passava tristemente le sue giornate, avendo
per unico svago e anche per unica risorsa il bel falcone col quale passava
le giornate cacciando. 
Ora avvenne che mentre Federigo campava così stantemente la sua
vita, il marito della signora si ammalò e in breve morì. Rimasta vedova,
la donna si dedicò interamente al suo unico figliolo, che era
già grandicello, ma assai gracile e di cattiva salute. Venuta l’estate,
per rimetterlo in forze, lo portò in campagna, all’aria buona, in un
podere di sua proprietà che era vicino a quello di Federigo.
Il giovanetto, girando per i dintorni, conobbe Federigo e, incuriosito
dalla caccia, cominciò ad andargli appresso e a frequentare la sua
casa, fin che gli divenne amico. Più d’ogni altra cosa, lo attraeva la
caccia col falcone, che seguiva spasimando per il bel rapace, quando,
scattato dal pugno di Federigo, ghermiva le prede a volo e le riportava,
deponendole ai piedi del padrone.
Avrebbe voluto che quel magnifico falcone divenisse suo, ma non
osava domandarlo a Federigo, perché sapeva quanto costui lo avesse
caro. Invece di aver giovamento della vita all’aria aperta, il ragazzo ne
ebbe danno, perché quel poco di strapazzo della caccia lo indebolì e
lo fece ricadere ammalato. Sua madre, la quale non aveva altro bene
che lui, gli stava intorno tutto il giorno a curarlo e continuamente gli
domandava se c’era qualcosa che potesse fargli piacere.
Il ragazzo un giorno disse: «Madre mia, se mi faceste avere il falcone
di Federigo, sento che guarirei». 
La donna rimase perplessa. Sapeva quanto Federigo l’avesse amata
senza ottenere da lei un solo sguardo, e si diceva: “Come posso domandargli
quel falcone, che a quanto si dice è il migliore che mai volasse,
e oltre a ciò è quello che lo mantiene in vita?”.
Era certa che se glielo avesse chiesto l’avrebbe avuto, tanto era nota
la gentilezza di Federigo e tanto poteva contare sulla sua devozione,
ma non si decideva a togliergli quell’unica ricchezza. L’amor del figlio
finì tuttavia col deciderla.
«Cercherò di accontentarti» disse al figlio.
Il malato fu così contento di quella promessa, che parve subito migliorato. 
La mattina seguente, presa con sé un’altra donna, con l’aria di chi
voglia fare una passeggiata, Giovanna passò dalla casetta di Federigo
e lo fece chiamare. Mentre, stupito, il giovane accorreva dall’orto
dove stava intento a piccoli lavori, Giovanna gli si fece incontro
lietamente e gli disse: «Salute Federigo. Vengo a farvi questa visita
per ricambiarvi, un po’ tardi, la gentilezza che mi avete dimostrato
amandomi per tanto tempo senza speranza. Starò, se lo consentite,
a pranzo con voi, alla buona, insieme a questa mia compagna».
«Signora», rispose Federigo «da voi ho avuto soltanto del bene, perché
l’amore che vi ho portato mi ha fatto grande onore. Vedervi ora
qui così amabilmente, mi è più caro di quanto non mi sarebbe il riavere
quanto ho speso amandovi, ma purtroppo questa povera casa
non è degna di voi. Permettete almeno che vada a far mettere un po’
d’ordine e a comandare che si disponga la tavola. Sedetevi intanto
con la vostra amica in giardino, dove la moglie del mio contadino vi
terrà compagnia».
Così detto entrò in casa, andò nella cucina e si rese conto che non vi
era nulla da portare in tavola, altro che rape e qualche insalata.
Avrebbe potuto mandare a comprare qualcosa al paese vicino, ma si
accorse di non avere neppure un soldo in tasca. Guardandosi intorno
in cerca di qualche ispirazione, gli caddero gli occhi sul suo falcone,
che se ne stava appollaiato sopra una stanga. Senza un istante
d’esitazione lo prese e, trovandolo grasso e di buon peso, pensò di
poterlo cucinare. Gli tirò il collo, lo fece spennare e ordinò alla donna
di cuocerlo allo spiedo. Apparecchiò intanto la tavola con una
bella tovaglia che aveva salvato dai creditori e, passata una mezz’ora,
andò in giardino e con un gesto da gran signore invitò e due donne
alla mensa.
Fu subito portato in tavola il falcone che, ben cotto com’era e privato
della testa e delle zampe, pareva un fagiano. Federigo scalcò
l’animale e servì le donne delle parti migliori, poi se stesso.
Mangiato che ebbero, Giovanna diede inizio a una piacevole conversazione,
nel corso della quale, quando le parve venuto il momento
giusto, disse a Federigo: «Ora vi debbo dire la vera ragione per la
quale vi ho fatto questa visita. Forse, ricordando la mia riservatezza,
che voi avrete giudicato durezza d’animo e crudeltà, troverete strano
il passo che ora sto per compiere. Chi non ha figlioli non può capire
cosa si arriva a fare per le proprie creature. Ma forse voi, che
siete uomo di grandi sentimenti, potrete comprendere il mio stato
d’animo. È per lui, per mio figlio, che sono qui a chiedervi un dono
che vi sarà difficile fare, perché si tratta dell’unica consolazione che
voi abbiate nella solitudine in cui vivete. Si tratta del vostro falcone.
Mio figlio, che è ammalato, si è tanto invaghito del vostro falcone,
che se non glielo porto si aggraverà e potrà anche morire. Perciò vi
prego, per l’amore che mi portate, che mi facciate questo dono con
la generosità che avete sempre mostrato. Mio figlio riavrà la sua salute
ed io vi sarò per sempre obbligata».
Federigo, che aveva i sudori freddi pensando al falcone che avevano
appena mangiato, incominciò a piangere in silenzio. Giovanna, convinta
che quel pianto fosse dovuto al dispiacere che il giovane provava
nel separarsi dal suo falcone, era quasi pentita del suo ardire e
stava per rinunciare al dono.
Federigo allora, trattenendo a fatica le lacrime, disse: «Signora, da
quando Dio volle che io vi amassi, in molte cose ho avuto contraria
la fortuna. Ma erano cose da nulla rispetto a ciò che oggi mi accade.
Quand’ero ricco non vi degnaste mai di entrare nella mia casa, ma
ecco che ora siete venuta in questo mio povero luogo a chiedermi un
piccolo dono che non vi posso fare. Io, che per voi ho dato tutto
quanto avevo! Sappiate che appena siete arrivata qui e mi avete chiesto
di desinare, per riguardo al vostro valore ho deciso di mettervi
cotto sul tagliere la cosa che più mi era cara e preziosa: il falcone.
Vedendo ora che lo volevate vivo, il dispiacere di non potervi
Accontentare è così forte che non mi darà più pace».
Poi andò in cucina, prese le penne, le zampe e il bello del falcone e
li mise davanti a Giovanna; questa lo rimproverò d’aver sacrificato
un simile animale per darle da mangiare, ma non poté tuttavia far a
meno di ammirare la sua grandezza d’animo.
Triste e sconsolata, se ne partì e tornò dal suo figliolo, il quale per il
suo disappunto di non aver avuto il falcone e per la gravità del male
che lo aveva colpito, si aggravò e dopo alcuni giorni morì.
Giovanna, dopo lunga sofferenza, trovandosi sola, ricchissima e ancor
giovane, venne consigliata dai suoi fratelli a rimaritarsi. Per alcun tempo
non volle sentirne parlare, parendole finita la vita sua.
Ma davanti alle insistenze di tutto il parentado e dovendosi in qualche
modo risolvere, avendo sempre presente la grandezza d’animo
dimostratale da Federigo, disse che solo lui avrebbe sposato. I fratelli,
sapendolo povero, non furono d’accordo e le suggerirono parecchie
altre persone facoltose. Ma Giovanna fu irremovibile.
«Fratelli miei», disse «so benissimo in quali condizioni è ridotto Federigo
degli Alberighi, ma preferisco un uomo che abbia bisogno di
una ricchezza a una ricchezza che abbia bisogno di un uomo».
I fratelli, vinti da un tale atteggiamento, finirono per cedere e diedero
in sposa a Federigo la loro sorella, con tutto il suo patrimonio.
Divenuto saggio amministratore della sua nuova ricchezza, Federigo
visse in letizia con Giovanna fino alla fine dei suoi anni, benedicendo
il giorno in cui aveva tirato il collo al suo bel falcone.
(da G. Boccaccio, Decamerone, dieci novelle raccontate da Piero Chiara, Mondadori, Milano)

lunedì 21 ottobre 2013

Fu allora che misero la città a ferro e fiore


Leoni, falchi, tigri, lupi, pescicani, anatre e tonni


La vita animale si nutre di vita. Non si nutre soltanto di terra, della sua aria, della sua acqua, dei suoi sali minerali, dei suoi vari elementi: la terra in sé, non elaborata, non ristrutturata in molecole organiche, non è sufficiente al mantenimento e alla crescita della vita animale. La vita animale si nutre di vita vegetale e/o animale. Le piante, invece, non si nutrono di altra vita: vivono di terra e di sole, sono capaci di sintetizzare le molecole complesse che formano la loro struttura fisica e supportano la loro vita.

I vegetariani hanno inteso e intendono uscire dalla zona della catena alimentare nella quale l'animale si nutre sia di vegetali che di altri animali. Hanno detto e dicono: no, basta, noi non vogliamo più partecipare a questo banchetto onnivoro, non ci nutriremo più di animali, sia di terra che di acqua. E questo lo decidiamo sia per motivi psichici, della mente e del sentimento, sia per motivi fisici, dato che non è necessario, per vivere, nutrirsi di carne d'animali o di pesci, e anzi, per vivere bene occorre adottare proprio una dieta vegetariana: questo fa bene sia alla mente che al corpo, dicono.

Tra i vegetariani, poi, ci sono quelli che non solo non vogliono più essere direttamente o indirettamente responsabili dell'uccisione di altri animali, ma non vogliono nemmeno più esserlo del loro sfruttamento: per cui, escludono dalla loro dieta non solo gli animali ma anche i loro prodotti, come le uova, il latte, il miele.

Sulla terra, intanto, le piante continuano ad essere la base della vita, continuano a creare sostanza organica a partire da quella inorganica, mentre gli animali continuano a mangiare piante, oppure piante ed animali, oppure essenzialmente solo altri animali. Cioè, di tutte le specie animali sulla terra, i vegetariani si collocano accanto a quelle che vivono nutrendosi soltanto di piante, rientrando, con una scelta consapevole, nel grande insieme della vita animale che mangia solo vita vegetale.

Se tutti gli esseri umani della terra diventassero vegetariani, da quello che vado leggendo il grande problema della fame nel mondo avrebbe molte più possibilità di risoluzione, e con qualche ulteriore attenzione dietetica la salute generale della nostra specie ne avrebbe giovamento.
Resterebbero, sulla terra, tutte quelle specie animali carnivore che continuerebbero a cacciare e uccidere altre specie animali meno forti o meno armate di denti, becchi, unghie, veleni.
L'uomo, così, diventando vegetariano deciderebbe di rinunciare all'uso delle proprie armi contro altri animali, armi che lo hanno reso prima l'animale più potente e letale dell'intero pianeta, poi l'animale più distruttivo e pericoloso, con un frequente slittamento dell'aggressività vitale verso il piacere perverso di uccidere, o la generalizzata, normale indifferenza verso la sofferenza e la morte degli animali che alleva per nutrirsene o per farne scarpe e borse.

Questo slittamento dell'aggressività vitale verso l'indifferenza o verso il piacere della sofferenza e la morte di animali è secondo alcuni connesso con la follia che porta individui della nostra specie a far soffrire ed uccidere altri esseri umani, inclusi i piccoli.
Non so se è così, e nessuno lo può sapere, ma non possiamo certamente escludere che una connessione vi possa essere.

A parte questo, volevo dire: se tutti gli esseri umani della terra smettessero di uccidere altri animali per mangiarli, resterebbero comunque tutte le altre specie carnivore che continuerebbero a farlo.
Allora, dei leoni, dei falchi, delle tigri, dei lupi, dei pescicani, saremmo invidiosi? Loro lo fanno, lo facciamo anche noi? Ne siamo, invidiosi? Anche delle anatre che volano come non saremo mai capaci? Anche dei tonni che nuotano come non saremo mai capaci?



Il topo che perdona il gatto


"Non nuocere ad alcun essere vivente fa senza dubbio parte della nonviolenza, però ne è solo un'espressione secondaria. Al principio della nonviolenza nuoce qualsiasi pensiero malvagio, nuoce la fretta non necessaria, nuocciono le menzogne, l'odio, il malaugurio, l'invidia. La nonviolenza viene altresì violata quando si tiene per sé ciò di cui il mondo ha bisogno."

"Nonviolenza e codardia si accompagnano male. Posso immaginare un uomo armato fino ai denti che sia, in cuor suo, un codardo. Il possesso di armi implica un elemento di paura, se non di vigliaccheria. La vera nonviolenza è invece impossibile ove non si possegga un indomito coraggio."

"Credo fermamente che laddove si debba necessariamente scegliere tra codardia e violenza, sia meglio la violenza. Però credo fermamente che la nonviolenza sia mille volte superiore alla violenza, che il perdono sia più virile del castigo. Ma l'astensione dal castigo equivale al perdono soltanto allorché si ha il potere di punire; non ha senso invece quando proviene da una creatura impotente. Un topo non perdona il gatto nel momento in cui non può far altro che lasciarsi sbranare."

(Gandhi)


 

sabato 19 ottobre 2013

Poco prima


Capitini e Schopenhauer


Ieri sera leggevo di Aldo Capitini. Della sua strana religiosità senza dio-ente. Del fatto che quando un essere umano è persuaso di un'idea-guida, quando questa idea arriva a far parte di sé e la sua vita si conforma ad essa, questa, per lui, è religiosità. Pensavo a quanti comunisti che ho conosciuto, superbi della loro laicità atea, fossero, per Capitini, fortemente religiosi. Questo pensiero si è associato al ricordo della mia sorpresa quando, dopo aver lavorato per un convegno di psichiatri e psicoterapeuti organizzato da un sindacato di sinistra, comunista e socialista di allora, mi ritrovai con in mano la bozza del volantino finale che prevedeva alla fine dei lavori una messa di benedizione tenuta da un qualche cardinale importante nella vita politica romana. Cascai dalle nuvole. Cominciai a passare di stanza in stanza dei dirigenti sindacali, a partire dal piano in cui stavo, il settimo, fino a piano terra, fino a esternare la mia sorpresa anche al portiere. Ci fu qualcuno che fece una smorfia di sopportazione, senza però la minima intenzione di fare qualcosa per tornare al programma previsto che era ben lontano dal comprendere una messa di benedizione finale. Gli altri, di piano in piano, erano tutti d'accordo, sorpresi della mia sorpresa, o decisivamente a favore della messa finale. L'idea sottostante - qualcuno me lo disse chiaramente - era che contro la malattia mentale può fare qualcosa solo il prete - l'esorcista - se no son tutte chiacchiere.

Tra l'altro leggevo, di Capitini, che almeno su un punto importante la pensava come Schopenhauer, per il quale - come ho scritto più volte qui riportando le sue parole - la compassione intesa come partecipazione immediata, istintiva, alle gioie o alle sofferenze di qualcuno là fuori nel mondo è la base di ogni tipo di amore, e la compassione per gli animali è una condizione necessaria: se qualcuno non prova questa compassione, verso gli animali, non prova davvero nemmeno quella verso gli altri esseri umani. Capitini, da parte sua, diceva che se non la smettiamo di uccidere animali non la smetteremo mai di ucciderci tra noi.


Sabato


Mi veniva: il sabato del vil agio. Però, per tanti non è affatto vile, l'agio del giorno di festa. Per alcuni sì, è vile, il loro agio, di sabato, domenica, lunedì, martedì, mercoledì, giovedì e venerdì.


venerdì 18 ottobre 2013

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Aggiungere, non togliere


Un bel sito di informazione sull'alimentazione è questo: http://www.vegpyramid.info/

C'è, tra l'altro, un'intervista a Luciana Baroni, in cui afferma che, a parte le motivazioni di carattere etico o di salute, chi avesse problemi con una dieta onnivora dovrebbe cominciare con l'aggiungere, e non con il togliere: non togliere la carne, ma aggiungere vegetali, cercando in questo tipo di alimenti gusti nuovi, piacevoli, e certamente salutari. Il maggior consumo di vegetali porterà con sé un minor consumo di carne. Verso il futuro, dunque, che a quanto pare non potrà essere dei mangiatori di animali.

Se poi uno fosse preso da orrore per la crudeltà con cui vengono prima tenuti e poi uccisi gli animali che finiscono a pezzi irriconoscibili nei nostri piatti - uno mangia la bistecca, mica il vitello che guarda terrorizzato perché ha capito che lo stanno uccidendo - e volesse tradurre questo orrore non solo non comprando più pellicce o scarpe di pelle ma anche con un rapido passaggio ad una alimentazione di sola vita vegetale, in quel sito ci sono molte informazioni utili per farlo con piacere e senza incorrere in carenze.

Un posto dove stare con tutti e due i piedi


giovedì 17 ottobre 2013

Così, tanto per farti una domanda


Messaggio mattiniero di un caro amico. Così, tanto per farti una domanda: ma per caso stai pensando di diventare vegetariano?  So bene a cosa pensa: alle nostre chiacchierate, ogni tanto, in una trattoria romana, davanti a un piatto che è diventato quasi un rito: bistecca ai ferri e cicoria ripassata.
Gli rispondo: questo è già il fare, per ora cammino verso il vedere come stanno le cose, fuori e dentro di me. Mi trovo ad aggiungere una cosa a cui non avevo più ripensato da tanto tempo e che mi trovo invece a scrivere come fosse un ricordo sempre presente. Del maiale, in campagna, quando ero piccolo. Gli portavo, in un vecchio secchio pesante più del suo contenuto, qualche pera di quelle cadute dall'albero. Mi accostavo alla sua casetta con un po' di timore, mi pare, ma non doveva essere poi così forte da impedirmi di avvicinarmi quanto era necessario per versare le pere dentro la sua mangiatoia. Non mi era antipatico, credo di poter dire senza inventarmi niente. Forse anch'io non gli ero antipatico, mi viene da dire inventandomi qualcosa.
Insomma, mi sono trovato a scrivere: ho ancora nelle orecchie le urla del maiale quando capiva che stavano per ucciderlo, e prima lo avevo visto contento di vivere.
Mi è arrivata subito la risposta del mio amico: va bene, vuol dire che se tu deciderai di diventare vegetariano, per solidarietà, anche se non sono vegetariano, quando mangeremo insieme non prenderò più la bistecca.
C'è poco da fare: lui va subito sugli effetti pratici. Sì, lo so che può essere una modalità di pensare ed essere positivamente pragmatica. Ma, ripeto, può impedire di pensare liberamente alle cose.
E' come quando uno si accorge che le cose con un'altra persona non vanno, e traduce immediatamente questa comprensione con il pensiero: che faccio, l'ammazzo? Soluzioni estreme che sembrano agenti speciali dell'impotenza, del lasciare le cose come stanno - e non è sempre il caso di lasciare che restino quello che sono.
Quando si rivolge il proprio sentire, immaginare, pensare, verso aspetti della vita con una loro complessità, ma soprattutto con una loro portata significativa di successiva decisione pratica, si rischia di imprigionare la propria mente con le sbarre di effetti pratici che riteniamo difficili o inaffrontabili, insuperabili, impossibili da mettere in atto. Pensiamo, che siano difficili, insuperabili. Bisogna vedere se è davvero così. Spesso non ci si è mai messi a cercare soluzioni praticabili, in realtà, e questo ha sistematicamente portato all'evitamento del problema.
In via orientativa, vale questo: la verità, cioè la corrispondenza tra ciò che pensiamo e la realtà, libera. La cecità forzata, il non voler vedere come stanno le cose, opprime e deprime.

mercoledì 16 ottobre 2013

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Visto che ci siamo, tanto vale esserci


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Savonarola era vegetariano?


Leggo su Wikipedia che i mangiatori soltanto di vita vegetale hanno una nobile storia.

"Le prime testimonianze attendibili di una pratica vegetariana risalgono all'incirca al VI secolo a.C. e sono associate alla nascita dei primi grandi movimenti religiosi: l'Induismo, in cui si trovano molti argomenti e pratiche a favore del vegetarianismo; lo Zoroastrismo, sorto nell'antica Persia (attuale Iran) e poi diffusosi e affermatosi in tutta l'Asia centrale e basato sugli insegnamenti del profeta Zoroastro (o Zarathustra), vegetariano e contrario ad ogni genere di azione violenta; il Giainismo, sorto in India e basato sugli insegnamenti di Mahavira, che proponeva ai fedeli un'alimentazione strettamente vegetariana; il Buddismo, nato anch'esso in India sotto la guida di Buddha, che esortava al rispetto per tutti gli esseri senzienti e la difesa della vita; il Taoismo, sviluppatosi in Cina grazie all'opera di Laozi, che considerava la natura come sacra, una concezione che favorì il diffondersi di abitudini vegetariane presso molti suoi seguaci."

Nobile storia che confermerebbe quello che scriveva Schopenhauer - alcuni passi significativi li ho riportati su questo blog: la sensibilità verso la sorte dei "fratelli animali", come lui li chiamava, è stata vissuta in Oriente più che in Occidente, dove il cattolicesimo ha agito da immensa fetta di prosciutto sugli occhi della gente. Probabilmente è proprio questa cecità crociata che impedisce di prendere atto del fatto - vedere come stanno le cose, poi uno decide cosa fare.
E' che siamo fatti così: le cose non le vediamo se inconsciamente sappiamo che il vederle ci comporterebbe decisioni che non vogliamo prendere - passiamo subito alle conseguenze, in corto circuito, non facciamo il passo che ci porta alla visione di come stanno le cose, per poi, da lì, decidere, di pensiero consapevole, cosa fare, a modo nostro - no, ci fermiamo prima di porvi lo sguardo davvero, per vedere, per sapere. Scansiamo la cosa con mani magiche anche quando la cosa ci sta sotto il naso, o ci siamo immersi fino al collo. E ci incazziamo assai se qualcuno ci stuzzica sulla cosa evitata - gli facciamo subito guerra. La cecità mentale non si tocca, come i fili dell'alta tensione, e questo accade perché il cieco mentale è sicuro che vedere significa fare nell'attimo stesso in cui avviene la visione - ed è un fare che non gli piace per niente, anzi.
La cecità crociata è portata alle oscillazioni da un eccesso all'altro. Lo vedo, Savonarola convertito al vegetarianesimo monacale, gridare dal suo pulpito:"Mangiatori d'animali di tutto il mondo, punitevi!".

Quando il buio è solo fuori


lunedì 14 ottobre 2013

Mangiatori di terra


Per vivere respiriamo, beviamo, mangiamo. Se non lo facciamo, la vita che è in noi entra rapidamente in difficoltà e presto si interrompe. Dobbiamo usare il mondo in cui viviamo per continuare a vivere, respirarlo, berlo, mangiarlo. Aria, acqua, materia inorganica e materia organica. Respiriamo cielo, beviamo acqua, mangiamo terra, ma non soltanto così com'è: ci nutriamo di materia organica che proviene da altri esseri viventi, come il latte e la frutta, e mangiamo altri esseri viventi, piante e animali.
Si dice: semplice, o facile come bere un bicchier d'acqua, o respirare. Non si dice: semplice, o facile come mangiare una bistecca - o un polpo: si sa, che sono intelligenti, giocano, provano emozioni.
Lo sappiamo, che non siamo angeli d'aria; tutti in qualche modo sappiamo che inevitabilmente la vita si nutre di vita: siamo terra, qui sulla Terra.
Possiamo però cambiare qualcosa, ci dicono i vegetariani.
Anche se non volessimo diventare mangiatori di sola vita vegetale, c'è un cielo grave di indifferenza sui mangiatori di animali. E' necessaria, questa indifferenza? E' una forma di saggezza? Forse non sempre, forse non tutta.
Forse, non tutta l'indifferenza dei mangiatori di animali proviene da una saggezza pratica, o da una consapevolezza di impotenza, o da un rischio di anoressia autopunitiva. C'è una parte di indifferenza che può diventare, senza pericoli per il proprio equilibrio mentale o fisico, maggiore consapevolezza della propria condizione biologica ed esistenziale.




Vasta eccezione



Riflettevo sulla affermazione che la vita si nutre di vita. Per quello che so, tutti gli esseri viventi animali si nutrono di altri esseri viventi animali o vegetali - la vita si nutre di vita, dunque, ma con una vasta eccezione, quella dei vegetali, che per vivere non hanno bisogno di nutrirsi di altri esseri viventi. Tra i vegetali ce ne sono alcuni che si nutrono di vita, spesso in decomposizione, ma sono una piccola parte di quel regno: il mondo vegetale è capace di formare materia organica necessaria alla vita nutrendosi di acqua, sali minerali ed energia solare. Il mondo animale non è capace di questo, e per vivere ha bisogno di nutrirsi di vegetali e/o animali - cioè altri esseri viventi.
I vegetariani hanno fatto una scelta, di quale vita nutrirsi per vivere: solo quella vegetale.


Psiche vive e si cura con Psiche


Così come la vita si nutre di vita


Non dimenticar le mie parole