Insomma, per Schopenhauer il "punto di contatto" tra genialità e follia è nella estrazione degli oggetti percepiti dal loro contesto di relazioni spaziali, temporali e causali, cioè la stessa operazione mentale che raccomanda a noi tutti, nel caso non ne fossimo già esperti, per avere uno sguardo non automatico, non banalizzante, non normalizzante: insomma per vedere davvero, come fosse la prima volta, per scoprire o riscoprire ciò che in quel momento guardiamo, per accorgerci del mondo nel quale viviamo in modo diverso da quello puramente funzionale che ci permette, camminando, di non andare a sbattere contro i pali della luce - evitalo, quel palo, certamente, dice Schopenhauer, ma qualche volta, ogni tanto, guardalo davvero, accorgiti di lui, e nel farlo abbandona tutto ciò che automaticamente la tua mente ti presenterà per inserirlo in un contesto di causalità e di scopo a cominciare dal nome - questo del nome non so se lo dice Schopenhauer, devo verificare - e quell'oggetto porterà per te un'altra luce oltre quella che utilmente già porta. Alla domanda: beh, ma a che serve questo tipo di sguardo? non è difficile rispondere, almeno a chi non la fa: può servire ad essere più veri e più seri - se non a vivere di più, a vivere meglio.
Ma il genio, per Schopenhauer, finisce per avvicinarsi molto al folle, e di punti di contatto non ne vede solo uno, in realtà. "Ciò che nella singola cosa esiste imperfettamente, il modo di considerare del genio lo innalza all'idea di esso, alla perfezione: egli vede perciò dappertutto gli estremi e appunto così il suo agire giunge agli estremi. Egli non sa trovare la giusta misura, gli manca l'obiettività, conosce perfettamente le idee ma non gli individui. Un poeta può conoscere intimamente e a fondo l'UOMO ma molto male gli UOMINI; egli può essere ingannato con facilità ed è uno zimbello in mano agli astuti." (p 221)
(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, N.C. 2011)
Nessun commento:
Posta un commento