giovedì 30 ottobre 2014

Caro Schopenahuer,

"Tra il volere e il conseguire trascorre dunque intera ogni vita umana.
Il desiderio è, per sua natura, dolore: il conseguimento genera tosto sazietà: la mèta era solo apparente: il possesso disperde l'attrazione: in nuova forma si ripresenta il desiderio, il dolore: altrimenti, segue monotonia, vuoto, noia, contro cui è la battaglia altrettanto tormentosa quanto contro il bisogno.
Quando desiderio e appagamento si susseguono senza troppo brevi e senza troppo lunghi intervalli, n'è ridotto il soffrire, ch'entrambi producono, ai minimi termini, e se n'ha la più felice vita. Quel che fuori di ciò si potrebbe chiamar la parte più bella, la più pura gioia della vita, appunto perché ci solleva sull'esistenza reale e ci trasmuta in sereni spettatori di questa: ossia il puro conoscere, cui ogni volere è estraneo, il godimento del bello, il genuino piacere dell'arte, richiedendo attitudini già rare, è dato solo a pochissimi, ed anche ai pochissimi soltanto come un effimero sogno."


(Schopenhauer, Il mondo)
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Caro Schopenhauer,
capisco il tuo amore e la tua stima per l'induismo, il buddhismo, i santi dell'umanità inclusi quelli cristiani; capisco il tuo amore e la tua stima per l'arte; apprezzo il tuo rigore coraggioso, la tua assenza di buonismo, la tua secchezza nell'indicare la tragicità possibile della vita senza false illusioni. Ma la tua forza analitica si esplica, a mio parere, soprattutto, o esclusivamente, nell'ambito dell'atto cognitivo, nell'ambito del rapporto di conoscenza tra soggetto e realtà, da cui si possono trarre preziosi spunti - qui, nell'analisi psicologica che si allarga verso i tanti e i tutti, mi permetto farti presenti alcune considerazioni.

Il desiderio è, per sua natura, dolore 
- vero per il desiderio realizzabile che tuttavia non riesco a realizzare, se questo desiderio è molto intenso e non riesco a darmi pace, ad accettare che è al di fuori delle mie possibilità, o delle mie possibilità attuali per cui posso muovermi in modo che diventi realizzabile
- vero per i desideri irrealizzabili se si trasformano in una ossessione per me: mi cadono i capelli e vorrei non fossero caduti, vorrei essere sicuro di non ammalarmi mai, vorrei non invecchiare, vorrei non essere mai separato dalle persone che amo e mai dover stare con quelle che non amo, vorrei la luna
- ma non vero per tutti gli altri casi: tu mi dirai che così restringo assai lo spazio di respiro contento di sé, ma se non bari dovresti riconoscere che questo spazio c'è, e più vasto dei momenti di incanto, di percezione estetica ed estatica del mondo; poi, per quanti siano quelli che occupano questo spazio, dovresti rinascere ed aggiornarti, forse, ammesso che quando eri in vita le cose fossero diverse da come sono ora

il conseguimento genera tosto sazietà
- godibilissimo vissuto, la sazietà, se di bello buono giusto sufficienti a generare il senso di sazietà

la mèta era solo apparente
- se ha generato sazietà reale, non era apparente: che poi la sazietà passi e torni il desiderio posso viverlo come il bello della vita - se la mèta fosse la sazietà una volta per tutte, questa non sarebbe raggiunta mai per i singoli desideri, ma è raggiunta sempre nel qui ed ora se il desiderio è quello di vivere, se la volontà è, come tu dici, volontà di vivere - sul fatto che questa volontà crei i casini tipici dell'uomo, sei freudiano quanto Freud era schopenhaueriano: se aveste ragione saremmo fregati - il problema è che anche se non avete affatto ragione teoricamente, la vostra teoria di una volontà innata che porta all'infelicità dei singoli e al disastro della specie è maledettamente descrittiva di un effetto successivo alla nascita, un prodotto successivo, culturale, che basa la sua potenza distruttiva mentale e materiale su una scomposizione delle disposizioni biologiche innate

il possesso disperde l'attrazione
- questa mi piace

in nuova forma si ripresenta il desiderio, il dolore: altrimenti, segue monotonia, vuoto, noia, contro cui è la battaglia altrettanto tormentosa quanto contro il bisogno

- può essere, ma è come dire che il cambiamento delle condizioni di esistenza materiale non produce, in sé, una maggiore felicità di vivere: intanto, se sono un povero, il cambiamento mi farebbe sopravvivere e anche vivere dignitosamente, e poi, avendone il tempo, mi porrei il problema della noia,  ma se il cambiamento di stato materiale me lo sono preparato nel desiderarlo senza tutti i pesi morti che la religione e i padroni della terra volevano mettermi in testa, è molto probabile che starò moltissimo meglio in ogni senso e che la noia dei ricchi non mi sfiorerà nemmeno: il cambiamento delle condizioni di esistenza materiale non è un sogno effimero, è un desiderio di carne e sangue, è la volontà inconscia, se non cosciente, di chi deve lottare ogni giorno per sopravvivere materialmente e far sopravvivere in sé il desiderio di vivere.



2 commenti:

  1. Risposte
    1. Grazie - non si può sempre stare in silenzio a leggere e ascoltare, ogni tanto uno sfogo ci vuole, no? :-)

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