mercoledì 29 ottobre 2014

Vietato ai deboli di cure

"Già vedemmo la natura priva di conoscenza avere per suo intimo essere un continuo aspirare, senza meta e senza posa; ben più evidente ci appare quest'aspirazione considerando l'animale e l'uomo. Volere e aspirare è tutta l'essenza loro, affatto simile a inestinguibile sete. 
Ma la base d'ogni volere è bisogno, mancanza, ossia dolore, a cui l'uomo è vincolato dall'origine, per natura. Venendogli invece a mancare oggetti del desiderio, quando questo è tolto via da un troppo facile appagamento, tremendo vuoto e noia l'opprimono: cioè la sua natura e il suo essere medesimo gli diventano intollerabile peso. La sua vita oscilla quindi come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi.

Nel permanente aspirare la volontà appare come un corpo vivo, con l'obbligo ferreo di nutrirlo. L'uomo, come la più compiuta oggettivazione della volontà, è per conseguenza anche il più bisognoso di tutti gli esseri: è in tutto e per tutto un volere, un abbisognare reso concreto, la concretizzazione di mille bisogni: con questi egli sta sulla terra, abbandonato a se stesso, incerto di tutto fuorché della propria penuria e delle proprie necessità. A questo si collega immediatamente la seconda imperiosa brama, quella di continuare la specie.


I più svariati pericoli minacciano l'uomo da ogni parte, e per sfuggirli occorre continua vigilanza. Con cauto passo, e ansiosamente spiando intorno, va egli per la sua via: così camminava nelle foreste, e così cammina nella vita civilizzata.


La vita dei più non è che una quotidiana battaglia per l'esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Ma ciò che li fa perdurare in questa battaglia così travagliata non è tanto l'amore della vita, quanto la paura della morte, la quale nondimeno sta inevitabile nello sfondo, e può a ogni minuto sopravvenire. La vita stessa è un mare pieno di scogli e di vortici, cui l'uomo cerca di sfuggire con la massima prudenza pur sapendo che quand'anche gli riesca con ogni sforzo e arte di scamparne perciò appunto si accosta con ogni suo passo, ed anzi vi drizza in linea retta il timone, al totale, inevitabile e irreparabile naufragio: alla morte. Questo è il termine ultimo del faticoso viaggio, e per lui peggiore di tutti gli scogli ai quali è scampato.


Ma qui ci si presenta subito come molto notevole questo fatto: da un lato dolori e strazi dell'esistenza possono facilmente accumularsi a tal segno che la morte stessa, nel fuggir la quale consiste l'intera vita, diviene desiderata, e spontaneamente le si corre incontro; dall'altro, che non appena miseria e dolore concedono all'uomo una tregua, la noia è subito vicino tanto che egli per necessità ha bisogno d'un passatempo.


Quel che tutti i viventi occupa è la fatica per l'esistenza, ma dell'esistenza, una volta che sia loro assicurata, non sanno che cosa fare:  perciò il secondo impulso che li fa muovere è lo sforzo di alleggerirsi dal peso dell'essere, di renderlo insensibile, di «ammazzare il tempo», ossia di sfuggire alla noia. Quindi vediamo che quasi tutti gli uomini al riparo dei bisogni e delle cure, quand'abbiano alla fine rimosso da sé tutti gli altri pesi, si trovano a essere di peso a se stessi, e hanno per tanto di guadagnato ogni ora che passi, ossia ogni sottrazione fatta a quella vita appunto, per la cui conservazione il più possibile lunga avevano fino allora impiegate tutte le forze.


E la noia è tutt'altro che un male di poco conto:  finisce con l'imprimere vera disperazione sul volto. Essa fa sì che esseri i quali tanto poco s'amano a vicenda, come gli uomini, tuttavia si cerchino avidamente, e diviene in tal modo il principio della socievolezza. Anche contro di essa, come contro altre universali calamità, vengono prese pubbliche precauzioni, e già per ragion di stato; perché questo male, non meno del suo estremo opposto, la fame, può spingere gli uomini alle maggiori sfrenatezze: panem et circenses, vuole il popolo.


Come il bisogno è il perpetuo flagello del popolo, così è flagello la noia per le classi elevate. Nella vita borghese è rappresentata dalla domenica, come il bisogno dai sei giorni di lavoro."


(Schopenhauer, Il mondo)

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