mercoledì 21 gennaio 2015

Cartesio


" ... le sole cose di cui siamo assolutamente sicuri sono i dati immediati della nostra coscienza.

Cartesio arriva a questa conclusione applicando il metodo conosciuto come metodo del «dubbio cartesiano». Esso consiste nel sospendere a scopo di ricerca la credenza in qualsiasi proposizione di cui si possa concepire l'erroneità. Su questo punto sono nati infiniti equivoci. Anche pensatori per altri versi grandi l'hanno interpretato come se Cartesio avesse davvero dubitato delle sue credenze fondamentali, oppure avesse cercato di convincere se stesso o gli altri a pensare che ne dubitava, e hanno protestato, sostenendo che era un'assurdità. Ma non è questo ciò che ha fatto Cartesio. Le sue intenzioni erano ben altre, come ora cercherò di spiegare con le mie parole.

La matematica ci offre un modello di conoscenza indubitabile e utile. È un edificio straordinario a tutti i livelli, dalle vette della pura astrazione fino agli aspetti pratici più comuni. 
Se noi riuscissimo a dare al resto della nostra conoscenza fondamenti altrettanto solidi, potremmo raggiungere il più alto controllo della realtà, sia pratico sia intellettuale, di cui gli esseri umani siano capaci. Analizziamo dunque la matematica per capire che cosa le conferisca tanta certezza e se non contenga qualcosa che possa essere applicato alla conoscenza non matematica. 
L'analisi rivela che tutta la matematica discende, secondo l'inevitabile necessità della logica deduttiva, da un numero molto ristretto di premesse, così brevi, semplici, elementari ed evidenti da risultare indubitabili. Se si riuscissero a trovare premesse altrettanto indubitabili per la nostra conoscenza empirica, esse potrebbero costituire i fondamenti sui quali erigere, per così dire, il mondo intero. 

Esaminiamo dunque le nostre credenze empiriche per vedere se ce ne siano alcune di cui non sia assolutamente possibile dubitare.

Sappiamo, purtroppo, che l'evidenza diretta dei nostri sensi può essere messa in dubbio, perché talora essi ci ingannano: il campanile della chiesa pare dorato al tramonto, mentre in realtà è grigio, un bastone diritto sembra ricurvo nell'acqua e così via. A volte abbiamo l'impressione di percepire qualcosa, mentre in realtà non percepiamo assolutamente niente. È quello che accade quando si sogna: si è convinti di essere in un certo posto, occupati a fare questo o quello, e poi ci si sveglia nel proprio letto e si scopre che era tutta un'illusione. 


La cosa è sconcertante: significa infatti che non posso essere assolutamente certo neppure che in questo preciso istante io sia seduto alla scrivania a scrivere queste parole, perché potrei svegliarmi e scoprire che non è vero. A pensarci bene, qualsiasi esperienza può rivelarsi ingannevole. 
C'è però qualcosa di cui non posso dubitare: è la coscienza dell'esperienza che ho in questo momento, anche se posso sbagliarmi completamente sulla sua provenienza. Ecco quale era il significato dell'affermazione secondo cui il soggettivo è indubitabile come non può mai esserlo l'oggettivo. Se dunque traggo conclusioni, deducendole non dalla presunta provenienza dei dati della mia coscienza, ma soltanto dal fatto puro e semplice di averli, quelle conclusioni non possono essere sbagliate. Esiste la possibilità di effettuare inferenze di questo tipo? 

La risposta è sì. Dal fatto di avere l'esperienza dell'autocoscienza consegue che devo esistere, e quel che più conta, esistere per lo meno come creatura che ha questo genere di esperienza: se non altro sono per forza un essere pensante. Posso perciò affermare con certezza: «Penso, dunque sono» o, a voler essere pignoli: «Dall'esperienza diretta dell'autocoscienza discende senza ombra di dubbio che sono un essere (non necessariamente quello che penso di essere) che esperisce l'autocoscienza (la quale potrebbe anche non avere il significato che le attribuisco)». "

(Bryan Magee, L'arte di stupirsi)

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