mercoledì 3 giugno 2015

Senti chi parla

"Non bisogna cercare di conoscere la parola: bisogna arrivare a conoscere chi parla"

Direi: non fermarsi alla conoscenza della parola, ciò che viene nominato, indicato, detto, ma arrivare anche a conoscere chi parla.
E questo "chi" parlante non è nelle Upanishad il soggetto individuale manifesto, percepibile con sguardo limitato all'evidenza attuale: non è Tizia o Caio - già così l'indicazione sarebbe utilizzabile: non ti fermare a ciò che viene detto, non ti fermare alla parola, ma cerca di conoscere chi parla - ma, ripeto, non è questo il senso di quel "chi parla", va oltre Tizia o Caio, va oltre qualsiasi individualità.

Quel "chi parla" va verso quella forza universale, quel Sé sovraindividuale di cui ogni individuo è la realizzazione, la manifestazione. Ciascuno di noi è una evidenza del movimento, dell'andare inarrestabile dell'energia nella materia, o  meglio dell'energia-materia, che tra infinite possibilità casuali ha realizzato se stessa nell'attrazione sessuale tra i due individui che si sono uniti per dare inizo ad una nuova vita, la nostra - la mia, la tua: così ha "voluto" "chi parla".

E quando uso la parola, quando parlo sto quasi sempre, alla fin fine, facendo ciò che serve per il mantenimento della mia vita, o per l'unione da cui ne può nascere un'altra. Cioè, alla fine, anche se molto indirettamente, sto facendo il discorso di "chi parla" in me, la mia parola è uno strumento del suo discorso, del suo essere, del suo movimento universale - "chi parla" in me come in ciascuno, è lo stesso parlatore per tutti.

Quando uso la parola come in questo momento sto anche cercando di "arrivare a conoscere chi parla", e per Schopenhauer, il grande amante delle Upanishad, quando la "Volontà" diventa consapevole di se stessa, quando non è più soltanto la forza inconscia che tutto muove senza essere vista da chi le ubbidisce ciecamente, si apre la possibilità, unicamente umana, di contrapporsi alla esecuzione totalmente impulsiva del discorso di "chi parla" - non con l'arresto del flusso vitale di cui sono espressione, poiché il suicidio è per Schopenhauer il massimo della schiavitù alla "Volontà" di "chi parla", bensì con l'astensione, l'astinenza, l'ascesi, la contrapposizione consapevole alla affannosa e inutile rincorsa verso un appagamento mai davvero raggiungibile - una soluzione tipica della cultura induista, buddhista e poi dei mistici cristiani, diversa dalla soluzione tipica della cultura greca, che con "chi parla" ci si mette a parlare con tutti i rischi dell'illusione e della sconfitta.

(Kausitaki Upanishad, Upanishad vediche, cap. 3 par. 8, Tea 1988, pag.277)

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