mercoledì 9 luglio 2014

Non fare l'indiano



“Vi  è tra l'etica dei greci e quella degli indiani un clamoroso contrasto. La prima, ad eccezione di Platone, ha per scopo di raggiungere la capacità di condurre una vita felice, beata, la seconda invece ha per scopo la liberazione e la redenzione dalla vita in assoluto. Ambedue vogliono consolare per la morte, ambedue lo fanno in modo opposto, e tutte e due hanno ragione
L'etica dei greci indica l'affermazione della volontà di vivere, in quanto di essa la vita conserva la certezza in ogni tempo, per quanto rapidamente possano cambiare le forme. L'etica indiana indica, coi simboli del dolore e della morte, il rifiuto della volontà di vivere e la redenzione da un mondo nel quale regnano la morte e il diavolo.” 

(Schopenhauer, Parerga)
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Il contrasto tra etica greca e etica indiana, scrive Schopenhauer, è lo stesso tra paganesimo greco-romano e cristianesimo. E poiché Schopenhauer è per l'atteggiamento e la soluzione degli indiani, cioè ritiene che lasciarsi andare alla volontà di vivere condurrà inevitabilmente all'infelicità e al dolore per cui è necessario opporsi all'attività desiderante mediante un distacco dal mondo e le sue cose, è anche a favore del cristianesimo, seppure "in fondo, in ultima analisi".

A proposito della soluzione "indiana", ho letto i principali discorsi attribuiti a Buddha. 
Mi sorprendeva, in tanta intelligenza di analisi, la soluzione drastica che si tramanda come sua: la sospensione dell'attività desiderante fino all'annullamento di ogni desiderio, essendo il desiderio considerato origine di ogni dolore psichico.
Ma, leggendo con attenzione e chiedendo ad esperti in materia, mi ero accorto che i termini usati in parti diverse della sua analisi non erano gli stessi: per esempio, se diceva che il desiderio è l'origine del dolore umano, poi, nel proseguimento del discorso, l'attività psichica di distacco e di annullamento doveva essere indirizzata contro la brama - che è una forma di desiderio: non ogni desiderio è bramoso, anche se la brama è sempre una trasformazione del desiderio. 

Insomma, Buddha, da quel che ho capito testi alla mano, indicò il grave pericolo dei desideri irrealizzabili (come quello di non invecchiare, o di non ammalare mai, o non morire, o non doversi mai separare dalle persone che amiamo e non dover mai stare con persone che non amiamo) e dei desideri realizzabili che si trasformano in ossessione e in follia distruttiva.

La domanda è: siamo capaci di lasciarci andare alla volontà di vivere, al desiderio (assolutamente senza desiderio nemmeno continueremmo a vivere, se includiamo tra i desideri insiti nella vita quello di respirare, bere, mangiare - ma la domanda vale, oltre questa "volontà di vivere" biologica, per i tanti desideri che possiamo avere vivendo) - siamo capaci di lasciarci andare alla volontà di vivere, al desiderio, e poi fermarci quando la vita ci dice no, o quando proseguire nella realizzazione di un desiderio comporta rischi eccessivi o dolore per noi stessi o chi amiamo? 

Schopenhauer scrive che, in ultima analisi, è d'accordo con indiani e cristiani, che propongono il distacco metodico, sempre e comunque, dai desideri - penso che verso Buddha anche lui commettesse un errore molto comune di interpretazione, quello che ho indicato qui sopra.
Ma scrive anche, delle due proposte di vita indiana e greca: tutte e due hanno ragione
Quindi, ne conseguirebbe che dovremmo essere capaci di essere come i greci dicevano, coraggiosamente vivi con tanto di desideri, e anche come gli indiani dicevano, capaci di distacco, coraggiosamente vivi nonostante l'impossibilità o l'inopportunità di realizzare alcuni desideri.

Integrare le due proposte di vita è possibile o è troppo? 
Se è, già in noi, assetto psichico istintivo che sa trovare la via nelle cose della vita, non è troppo - silenziosamente è, semplicemente è. 
Se invece non è, allora sì, può essere troppo - irraggiungibile intelligenza emotiva e veloce capacità comportamentale: parlarne, pensarci, non basta, anche se può essere utile.

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